L’oltrepassamento della metafisica, se vuole essere davvero radicale, non può ridursi a valere come pura e semplice ri-legittimazione del mito, dell’ideologia, e anche del salto pascaliano nella fede.
Riflettiamo su che cosa ha significato l’oltrepassamento della metafisica per il filosofo che più radicalmente l’ha teorizzata, Martin Heidegger. Lo sforzo di pensare l’essere – per le ragioni a cui ho accennato sopra – non più come struttura oggettiva che la mente dovrebbe rispecchiare adeguandovisi nelle sue scelte pratiche, lo ha condotto a praticare la filosofia come risalimento rammemorante nella storia dell’essere. L’espressione «storia dell’essere» o anche «destino dell’essere» (giocando sulla vicinanza tra i termini Geschichte e Geschick) è centrale nel tardo Heidegger. E ciò perché il solo modo non metafisico, non oggettivante, di pensare l’essere sembra a Heidegger quello che lo concepisce non come struttura obiettivamente data davanti all’occhio della mente, ma come evento, accadimento. Per capirci potremmo dire che gli oggetti della nostra esperienza si danno solo entro un orizzonte; questo orizzonte, come una luce che fa apparire le cose, non è a sua volta oggettivamente visibile.
Se di essere possiamo parlare, dobbiamo pensarlo piuttosto come questo orizzonte e questa luce, piuttosto che come la struttura generale degli oggetti. Non essendo oggetto, l’essere però non ha neanche la stabilità che la tradizione metafisica gli ha voluto attribuire. L’evento dell’essere è tale nel duplice senso del genitivo: l’orizzonte è apertura che appartiene all’essere, ma è anche ciò a cui l’essere appartiene; non si dà essere stabile, eterno ecc., ma l’essere è solo quello che di volta in volta accade nel suo evento. (…)
Vattimo G., Dopo la cristianità. Per un cristianesimo non religioso, 2002, Garzanti, pp.24-25.