domenica, Novembre 3, 2024

Gideon Levy su Israele: “Basta muri, la soluzione è garantire uguaglianza e parità di diritti”

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Gideon Levy non ha preso parte alle manifestazioni di protesta che per più di sette mesi hanno tentato di bloccare la riforma della giustizia del governo Netanyahu. “Apprezzo le istanze di questo enorme movimento che vuole preservare la democrazia nel nostro Paese e mi auguro che possano svegliare Israele una volta per tutte – ci ha spiegato – . Ma le persone scese in piazza a Tel Aviv, a Gerusalemme e nel reso del Paese stanno lottando soltanto per una parte della popolazione, per gli ebrei, e per questo motivo non posso far parte di questo movimento”.

Firma storica del quotidiano progressista Haaretz, da sempre voce scomoda e invisa al potere politico israeliano, Levy sostiene che gran parte del movimento di protesta con base a Kaplan street, nel cuore della capitale, non ha ancora capito che la democrazia è incompatibile con l’occupazione della Cisgiordania, e che non è possibile battersi per l’autonomia del potere giudiziario, per la laicità dello stato e per il diritto di manifestare ignorando al tempo stesso la questione palestinese.

L’abbiamo incontrato sul lungomare di Tel Aviv, insieme a una delegazione di Pax Christi Italia, subito dopo l’approvazione della riforma giudiziaria da parte della Knesset.

Una situazione simile non si era mai verificata in 75 anni di storia di Israele. Adesso come può evolvere questa protesta?

Finora è stato toccato il problema dell’occupazione perché la maggioranza dei manifestanti ritiene che Israele possa conciliare democrazia e occupazione. Io non sono affatto d’accordo ma incrocio le dita sperando che tutte queste persone scese in piazza alla fine possano cambiare davvero lo status quo per tutti gli abitanti di Israele. Prima dovranno però comprendere che è necessario battersi per i diritti di tutti, non solo di una parte della popolazione. Si tratta senza dubbio di una situazione assai esplosiva e c’è un rischio molto serio che prima o poi possano esserci omicidi per le strade. Basta un singolo episodio, qualcosa che va storto e la natura pacifica della protesta può cambiare. Spero che le forze dell’ordine riescano a mantenere la calma.

Una parte minoritaria della protesta di questi mesi, il cosiddetto “blocco anti-occupazione”, la pensa come lei.

Purtroppo sono ancora troppo pochi ad averlo capito ma confido che col tempo il loro numero possa crescere e avere un impatto decisivo sul futuro del Paese. Sono trascorsi ormai 55 anni (dalla guerra dei Sei giorni del 1967, ndr) e credi che dopo tutto questo tempo non si possa più parlare di occupazione temporanea della Cisgiordania. Questo è a mio avviso un punto cruciale, perché se lo consideriamo – come di fatto è – un fenomeno duraturo allora ridefinisce anche la natura dello stato di Israele. In altre parole, se l’occupazione è permanente Israele è uno stato di apartheid. Al momento ci sono circa sette milioni di ebrei che vivono in Israele e altrettanti palestinesi che vivono tra il fiume Giordano e il mar Mediterraneo. Per questi quattordici milioni di persone ci sono tre differenti regimi politici: una democrazia liberale per gli ebrei, una mezza democrazia per i palestinesi di Israele che sono cittadini israeliani e votano per il parlamento, hanno un passaporto israeliano e gran parte dei diritti degli ebrei ma sono profondamente discriminati, infine una brutale tirannia militare per i palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza. Ma di loro molti israeliani non si preoccupano affatto. Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e l’intero mondo occidentale ritiene che Israele sia una democrazia liberale e condivida gli stessi valori dell’Occidente, ma ciò non può essere affatto vero se nel suo cortile sul retro mantiene in vigore una brutale tirannia. La comunità internazionale dovrebbe comportarsi con Israele come fece qualche decennio fa con il Sudafrica, quando riuscì infine a far cadere un regime che opprimeva i neri sudafricani.

Perché ritiene che Israele sia uno stato di apartheid?

Basta andare a vedere con i propri occhi quello che accade nei Territori occupati. Ci sono villaggi dove gli ebrei godono di ogni diritto e si sono appropriati di tutte le risorse – a cominciare da quella idrica – e accanto a essi ci sono invece realtà palestinesi prive di acqua, di luce, e persone private dei diritti più elementari. Esistono legislazioni differenti per ebrei e non ebrei, tribunali separati e pene diverse a seconda dell’imputato, persino strade diverse per ebrei e palestinesi. Se un giovane ucraino lancia una molotov contro un carro armato russo è considerato un eroe, un combattente per la libertà, mentre se un giovane palestinese attacca un blindato israeliano, nel suo Paese, è visto invece come un terrorista.

La comunità internazionale deve smetterla con le risoluzioni internazionali, visto che Israele le ignora tutte da sempre, e deve agire in modo chiaro e netto, adottando sanzioni e strategie di boicottaggio e disinvestimento, proprio come ha fatto nei confronti della Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Lo stato di Israele deve essere ritenuto responsabile per quello che ha fatto in 55 anni di occupazione e pagare per i propri crimini, altrimenti non ci sarà mai la pace.

A lungo si è parlato della soluzione “due popoli in due Stati”. Pensa che sia un’ipotesi tramontata?

Era una soluzione ottima ma ormai è del tutto impraticabile. Non sono certo che Israele abbia mai voluto concedere uno stato ai palestinesi ma quel che è certo è che adesso non è più attuabile, perché i palestinesi non hanno più un territorio dove poter creare uno stato. Chi continua a considerarla possibile o non sa di cosa parla o è in malafede e vuole soltanto protrarre l’occupazione all’infinito.

Secondo lei quale potrebbe essere la soluzione?

Dobbiamo innanzitutto smetterla di parlare di insediamenti, di confini, di muri e di check point e iniziare un nuovo percorso con un unico obiettivo: garantire uguaglianza e parità di diritti per tutti. Sarà un percorso lungo e pieno di difficoltà ma è davvero l’unico modo per risolvere il problema. È questo che il mondo dovrebbe cominciare a chiedere a Israele, che deve scegliere una volta per tutte se vuole essere uno stato ebraico o uno stato democratico, perché entrambe le cose non sono compatibili. Deve diventare uno Stato per tutti i suoi cittadini.

C’è qualcosa che possono fare i palestinesi nel frattempo? Tra non molto l’Autorità Palestinese dovrà trovare un nuovo leader perché Abu Mazen è ormai molto anziano.

La leadership palestinese dovrebbe essere più forte e soprattutto più unita. Dopo la morte di Arafat nessuno è parso in grado di ripristinare l’unità perduta. L’unico che forse potrebbe riuscirci è Marwan Barghuti ma si trova in carcere da tanti anni. Ormai l’ANP è del tutto irrilevante sul piano politico. Dopo Abu Mazen verranno altri burocrati corrotti che non cambieranno niente. In passato i palestinesi hanno tentato tutte le strade possibili: la violenza, la nonviolenza, la diplomazia, l’economia, le battaglie legali. Adesso hanno raggiunto il momento più basso della loro storia. La soluzione non è più nelle loro mani dei palestinesi o in quelle degli israeliani. Soltanto la comunità internazionale può fare ancora qualcosa.

Ha mai avuto problemi personali o di censura per quello che scrive e per le sue posizioni politiche?

Seguo l’occupazione da 35 anni e fino ad oggi non ho mai avuto alcun problema di libertà di opinione, non sono mai stato limitato né censurato dal mio giornale. Talvolta ho avuto problemi con la gente e con alcuni gruppi di estremisti ma mai con il governo o con i servizi segreti. Non do per scontato che continuerà a essere così anche in futuro perché l’attuale governo sta cambiando la natura del Paese. L’unica limitazione che ho dovuto subire riguarda Gaza, dove da sedici anni non mi consentono più di entrare, perché da allora l’accesso ai giornalisti è stato interdetto. In Israele il problema principale dei mezzi d’informazione non è la censura ma semmai l’autocensura perché gran parte dei mezzi di informazione sono commerciali e non parlano di quello che accade nei Territori occupati semplicemente perché la gente non è interessata a conoscerlo. Di fatto gran parte dei media israeliani collaborano all’occupazione, non perché siano forzati a farlo ma in modo del tutto volontario e ciò, a mio avviso, è ancora più grave.

Articolo pubblicato originariamente su Gariwo

Intervista a cura di Riccardo Michelucci

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