domenica, Dicembre 1, 2024

Confratelli/Mitbrüder (Christian Bauer)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Ecco che incontro di nuovo la parola “confratelli”, un termine proprio del vocabolario clericale che a me (e a molti altri) comincia a dare fastidio. Durante un’intervista un arcivescovo tedesco di recente nomina, quando gli è stato chiesto del suo periodo come rettore in seminario, ha affermato: “Penso che sia positivo per un vescovo valorizzare la formazione sacerdotale. All’interno della Conferenza episcopale, anche molti confratelli erano attivi, a vari livelli, nella formazione dei sacerdoti”.

L’esprit de corps delle organizzazioni maschili tossiche


Ci sono parole, che nel gergo ecclesiastico sono in uso ancora oggi, per le quali ho sviluppato una profonda avversione. Una di queste è il termine “confratelli”. Esso rivela un certo esprit de corps maschile tossico presente in non pochi sacerdoti, associato ad un clericalismo, un “sentirsi casta”, che io (come molti altri!) non sono più disposto ad accettare e a sopportare. Infatti questo termine dovrebbe essere aggiunto al più presto alla lista delle “brutte parole” ecclesiastiche che non vanno più usate. Perché? Perchè un’espressione come questa non solo esclude i cristiani non ordinati (soprattutto le donne che attualmente non sono “ordinabili”), ma anche perchè (e questo non è certo meglio!) spinge i sacerdoti ordinati nelle spire del clericalismo – in una sorta di esilio autoimposto, di cattività babilonese.

Esiste un “programma sinodale di disintossicazione”


Il clericalismo ha molte facce. Non coinvolge solo i sacerdoti, ma anche il laicato (Michael Schüßler parla di “co-clericalismo”). Tuttavia, da quando si è saputo che l’ex cardinale di Colonia (Joachim Meisner), in un dossier tenuto segreto, ha definito “confratelli nella nebbia” gli autori di abusi, l’espressione “confratelli”, usata esclusivamente da sacerdoti per altri sacerdoti, mi sembra non solo sospetta, ma anche estremamente pericolosa per quanto riguarda le cause sistemiche e profonde degli abusi sessuali e spirituali. Questo perché il termine rientra in un linguaggio ecclesiastico tossico che ha urgente bisogno di un “programma di disintossicazione” profondo e completo grazie al cammino sinodale.

Regola di Dio, non regola clericale


Grazie a Dio, ci sono anche molti sacerdoti (e vescovi) non clericali che non si considerano principalmente dei chierici, ma dei compagni cristiani (e degli esseri umani). Sono amico di alcuni di loro e desidero sinceramente che non siano “inclusi” in questo onnipresente termine “confratelli”. Sono alleati nel cammino verso una Chiesa sinodale che superi le asimmetrie di potere sacralizzate (indipendentemente dal fatto che si parli di cattolici con il colletto romano o protestanti con i pantaloni di velluto a coste) in un cammino di auto-conversione globale al Vangelo. Un popolo di battezzati che si vede nuovamente come “Societas Jesu” nel cammino comune (“syn-hodos“) del discepolato – come una compagnia di Gesù che si muove nel regno nascente di Dio e non come un clero statico e distante.

L’habitus del pensiero di casta


Ogni volta che qualcuno parla di “confratelli”, domando a me stesso: non siamo tutti fratelli e sorelle in termini di Vangelo? Perché allora questa sottolineatura o delimitazione? E allo stesso tempo, continuo a pensare: o fratelli e sorelle (e tutte le varianti nel mezzo) o niente – ma per favore non “confratelli”. Questo termine esprime una percezione profondamente radicata di status che è diventato da tempo un habitus clericale – un atteggiamento di base sacralmente religioso ed esagerato in cui si viene già socializzati (anche linguisticamente) in seminario e che rappresenta un tradimento del Vangelo e dell’uguaglianza fondamentale di tutti i battezzati (Cfr. Gal 3,28).

Testimonianza anti-evangelica


I tanti clericalismi che non solo si riflettono in questo linguaggio discriminatorio, ma lo producono e lo rafforzano in modo fondamentale, danneggiano la struttura sacramentale della Chiesa, perché sono in contrasto con la sua stessa “sacramentalità” (parola chiave: ecclesiologia sacramentale del Concilio Vaticano II). Non si tratta più – seguendo la definizione classica di sacramento – di un segno visibile (“signum visibile“) di una grazia invisibile (“invisibilis gratiae“), ma di una testimonianza manifesta del Vangelo. I giochi di prestigio linguistici del clero, non solo non sono in linea con il Vangelo, ma rivelano anche un “pericolo di oscuramento” che proviene dalla Chiesa stessa: “I fedeli possono […] con […] le […] mancanze della propria vita religiosa […] velare piuttosto che rivelare il vero volto di Dio [potius velare quam revelare].” (Gaudium et Spes 19).

Una spiritualità che promuova la vita


C’è ancora molta strada da fare, non solo per i “confratelli nella nebbia” di Colonia, prima di superare la comprensione di un ministero fermo alla triade: sacerdotale-sacrale-sacrificale. Un ministero ancora “del tempio”, magico e ristretto ai “confratelli” (il Concilio Vaticano II ha dato un segno quando ha chiamato il suo decreto sui sacerdoti non “Sacerdotorum ordinis”, ma “Presbyterorum ordinis”). In futuro servirà riscoprire la cura pastorale condivisa nella diversità, naturale e molto biblica, di ministeri. Lo spirito del discepolato di Gesù, una prospettiva realmente sinodale, permette anche una spiritualità del ministero ordinato che promuova la vita… tutta la vita. Se questo non avverrà possiamo anche fare a meno di tutta la retorica stanca sulla riforma della Chiesa. Che ne dite di iniziare ad usare noi un linguaggio per nuovo per facilitare la transizione: semplicemente “sorelle e fratelli”, senza alcun “con” (auto)escludente?

Christian Bauer

(Liberamente tradotta da don Paolo Zambaldi)

Testo integrale in lingua originale:

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