venerdì, Marzo 29, 2024

Raqqa e Daesh, un anno dopo

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

*murale di Murad Subay (Yemen)

Raqqa era una delle due capitali dell’Isis (che chiameremo con l’acronimo arabo Daesh). Era una città di circa mezzo milione di abitanti nel cuore della Mesopotamia. Bagnata dal fiume Eufrate e circondata da terre fertili. Raqqa è stata una delle prime città a liberarsi da Assad, insorgendo contro la dittatura. Ma nel giro di poco tempo sono stati i gruppi più radicali a prendere il sopravvento, finché non è stato Daesh che ha scalzato tutti e ha reso la città una delle capitali del Califfato.

 

Raqqa è stata rasa al suolo, come Berlino durante la seconda guerra mondiale. La coalizione internazionale ha voluto punire il luogo da dove sono state pianificate molte battaglie e dove sono stati ideati alcuni attentati in Europa, come quelli di Parigi.

 

Durante la battaglia c’erano sotto le bombe solo tre ong che prestavano aiuto ai civili feriti, tra cui “Un ponte per…” con la Mezza Luna Kurda. Le persone fuggivano sulle due strade principali di uscita dalla città e trovavano una villa trasformata in una clinica in cui c’erano medici e infermieri pronti a stabilizzare i feriti, dare le prime cure e caricare le ambulanze per chi aveva bisogno del più vicino ospedale. Cinque ambulanze erano al fronte, pronte a evacuare i civili feriti subito. Vita e morte si avvicendavano velocemente in quei giorni. A volte si riuscivano a salvare vite umane, altre se ne constatava la fine, senza avere il tempo di pensarci. Come sempre donne, anziani e bambini erano in fuga. Dall’alto costantemente si sentivano gli spari e i bombardamenti. Un giorno un intero palazzo abitato dai pochissimi cristiani rimasti in città durante Daesh è stato evacuato. Operazione complicatissima da svolgersi durante la battaglia. Le ambulanze in prima linea portarono via 10 famiglie. Fantasmi di Raqqa salvati. Un altro giorno miliziani di Daesh travestiti da militari delle forze regolari sono arrivati alle porte della villa-ospedale da campo ed hanno aperto il fuoco contro pazienti e medici. Un famoso giornalista kurdo è morto così, mentre provava a raccontare quel pezzo di storia. Gli altri, per fortuna si salvarono. I medici che erano lì quel giorno hanno ancora gli occhi pieni di orrore.

 

Un anno fa Raqqa è stata liberata. Del circa mezzo milione di abitanti che vivevano in città e nell’area sono rientrate subito centomila persone. Meglio parlare di centomila anime stanche di sfollare e vivere nei campi profughi. Stanche di errare disperatamente tra un fronte e l’altro di una guerra che si trascina da 8 anni. E tutte hanno sfidato il divieto di rientrare nonostante le autorità locali avessero avvertito che Daesh aveva lasciato la città piena di mine e trappole esplosive. Così i mesi dell’autunno sono passati a ricostruire case e rifugi di fortuna e a contare le persone che saltavano sulle mine. E i medici hanno spostato la clinica dalla villa di periferia al cuore della città. Ogni giorno 300 persone, per lo più donne e bambini, sono in fila per avere cure di base che non dà più nessuno gratuitamente. Ci sono un paio di centri privati che chiedono tanti soldi e non esiste più un servizio sanitario pubblico. Ci si ammala per la guerra e ci si ammala semplicemente perché non ci sono più medici da cui andare quando se ne avrebbe bisogno. E poi molti sono fuggiti all’estero o altrove. La classe media in queste guerre è la prima ad avere possibilità e risorse per scappare. E spesso per non tornare. Così le infermiere e gli studenti di medicina vengono promossi medici sul campo. Paziente dopo paziente migliorano le loro capacità operative. Non c’è tempo per studiare e per fermarsi.

 

A Raqqa da mesi ogni giorno si spara. Il nuovo ordine egemonizzato da kurdi con alcuni clan arabi e protetto da americani e francesi non va bene a tutti. Alcuni gruppi sparano ogni giorno ai militari che presidiano la città. Alcuni leader politici sono stati uccisi a sangue freddo. Gli equilibri sono molto fragili e ci sono forze come i turchi e il regime di Damasco che non hanno nessun interesse a che si stabilizzi l’area. E soffiano sul fuoco. Come se i siriani non ne avessero visto già abbastanza di fuoco.

 

A Raqqa abbiamo aperto un ospedale il 16 Settembre. È sorto sulle macerie del vecchio complesso ospedaliero pubblico, usato da Daesh come base e raso al suolo dagli aerei americani. In uno stabile ancora parzialmente in piedi abbiamo ricostruito un intero reparto di maternità e pediatria. Perché a Raqqa continuano a nascere bambini e a crescerci. E sono centinaia, nonostante la guerra, la fame, la violenza e l’incertezza. E ogni giorno arrivano le statistiche della vita che rifiorisce. E della vita che viene strappata alla morte perché spesso un parto sicuro può salvare madri e figli.

 

Da qui bisogna partire per fermarsi e ragionare. In queste terre c’è stato Daesh e prima la mano violentissima della dittatura di Assad. E poi tonnellate di bombe per cancellare tutto e tutti. I giovani sono pochi, chi ancora al fronte, chi fuggito, chi sfollato in luoghi più sciuri. Mentre appunto migliaia sono i bambini. La vita rinasce ma i frutti e i segni di anni di violenza sono tutti ancora presenti.

 

Nella narrativa internazionale sembra invece che, finita la battaglia contro Daesh, sia finita anche l’emergenza. E invece comincia esattamente ora l’emergenza. Quella di ricostruire un tessuto di dialogo, civile, di vita comune. Quella di ridare luce alle strade e futuro alle migliaia di minori che continuano a nascere e a crescere. Su questo pochi ascoltano. Investire in cultura, educazione, sanità in Siria sembra troppo rischioso. O è troppo presto. O gli equilibri sono troppo fragili. C’è sempre un buon motivo per rimandare. Ma quando avranno diritto queste persone a ricostruirsi una vita? Solo nell’aldilà o è possibile anche per loro avere una scuola decente e non bombardata dove portare i loro figli?

 

Ed è qui che a Raqqa ma anche a Mosul la comunità internazionale sta venendo meno. Sta pensando che non sia urgente lavorare sulle speranze di una vita nuova e migliore. Daesh sembra sconfitto, anche se in realtà la battaglia è ancora in corso nella città di Deir el-Zor. E in realtà il fuoco cova ancora sotto la cenere. Magari ha un nome diverso ma il risultato è lo stesso. Ancora c’è violenza.

 

Dopo la seconda guerra mondiale il Piano Marshall permise, per sostenere il dominio delle super potenze, di far ripartire l’Europa. E anche di lavorare su alcuni dei principi base della riconciliazione e della pace: gli scambi culturali, il perdono, la lettura (più o meno) comune della storia. Non tutto ha funzionato, evidentemente. Dopo 60 anni i fantasmi del fascismo sono di nuovo alle porte, più violenti e disumani che mai. Ma in Siria nessuno sta pensando a un piano Marshall e si pensa solo al contenimento del danno. E alle bombe ancora da sganciare per poi negoziare eventuali accordi di pace tra le superpotenze che dirigono il conflitto: Russia, Iran, Israele, Stati Uniti, paesi del Golfo e altre comparse minori.

 

E negli occhi dei siriani a Raqqa, delle persone normali che ci vivono, invece vedi solo il desiderio di pace. Di urlare: basta! Pace e convivenza per vinti e vincitori, vittime e carnefici. I siriani più intelligenti sanno che dopo 8 anni di conflitto sono tutti vittime. Un medico mi diceva che aveva curato tanti miliziani di Daesh anche se gli avevano sparato spesso addosso e avevano perseguitato lui e la sua famiglia perché sono di una minoranza religiosa. Ma mi ha detto che era suo dovere curare e intervenire. Sempre. Era suo dovere essere umano. Non servono i milioni di un piano di aiuti. Serve poter accompagnare queste persone nella loro capacità di dialogo e nella loro voglia di ricostruire. Lì a casa loro e non in Germania da rifugiati. Molti tornerebbero subito se la guerra sulla pelle dei siriani finisse. Sembra un’utopia la pace, ma i peggiori conflitti sono finiti.

 

Di nostro, ora, possiamo solo continuare ad aiutare gli eserciti di professori, medici e persone comuni che stanno ripopolando Raqqa. E offrirgli spazio, ascolto e tempo per ritrovare la vita comune che cercano.

 

(Domenico Chirico, “Gli asini” n. 57, novembre 2018)

 

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