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“Tu lo dici: io sono re”, commento per domenica 25 novembre (Selene Zorzi)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

ANNO B, 25 novembre 2018, CRISTO RE; Dn 7,13-14; Sal 92; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37

Oggi è l’ultima domenica dell’anno liturgico. Si chiude un pezzo di storia e ne inizia un altro. In questo giorno, da qualche decennio (1925) hanno pensato di istituire la festa di “Gesù Cristo (re) Signore dell’universo”… e della storia.

La nostra storia è fatta di intrecci e relazioni, di slanci entusiastici e di delusioni, di intese e fraintendimenti, di alleanze e tradimenti. Viviamo sempre a metà strada tra il grigio déjà vu e il solare “qui e ora”. Sempre nella nostra storia qualcosa si chiude e qualcosa sta per iniziare. A volte qualcosa sorge come un fiore in mezzo all’asfalto e altre volte qualcosa si accartoccia e si oscura, come un foglio di carta nella fiamma.

Viviamo vari tipi di tempo:

– un tempo “orologiaio”, cronologico, che si ripete sempre uguale, in cui ogni istante, come quelle dei minuti scanditi dall’orologio, è identico al precedente e al seguente. È il tempo biologico, dei nostri cicli (mestruali e non); delle nostre paturnie che tornano e ritornano; dei nostri circoli viziosi, in cui sempre di nuovo ci ritroviamo. In questo tempo noi siamo quelli di ieri e saremo quelli di domani, secondo un cliché che non riusciremo mai a cambiare. Si nasce, si muore. I nostri meccanismi di ieri re-innescheranno inevitabilmente i nostri errori di domani… ciclicamente, inesorabilmente… la legge della fine e dell’inizio.

– un tempo “puntiforme”, che conosce lo spessore e la densità di un Incontro, di un Evento. L’istante in cui tante cose, parole non dette, fraintendimenti, silenzi, litigi e sofferenze, strappi e incomprensioni, assumono anch’essi tutto il loro senso. In questo tipo di tempo, un istante può essere infinitamente più grande di quello precedente, infinitamente diverso da quello seguente, perché è assolutamente unico. È un tempo significativo, il tempo delle decisioni senza ritorno, della percezione di sé all’interno di un progetto provvidenziale, e del mondo che ci circonda come di una armonia universale. Ma è un tempo irripetibile.

– c’è poi il tempo liturgico: il tempo in cui l’Evento dell’assoluta Novità – la Risurrezione di Cristo, che è il senso ultimo di tutte le nostre cose, delle nostre azioni e relazioni – si stilla nel tempo biologico e lo trasforma in storia salvata. Tempo riempito da una Presenza. Sempre nella liturgia viviamo questo tempo, ma in questa ultima domenica, in quanto fine dell’anno liturgico, si sottolinea questa affermazione poderosa: Dio, il Signore dell’universo, è il Signore della storia. Allora, proviamo a guardare meglio: per tutto l’anno forse abbiamo dipinto, come un pittore, da vicino gli interstizi delle nostre vicende, ma ora dobbiamo fare dei passi indietro e cercare di guardare il tutto. Oggi siamo un po’ chiamati a guardare la nostra storia da una panoramica alta: non rivela tutto questo un disegno maestoso, come quei disegni immensi tracciati sulla terra in Sud America, i quali non si vedono se non dall’alto, come se fossero stati fatti per misteriosi spettatori spaziali e che solo da lì rivelano tutta la loro bellezza, la loro armonia, il senso segreto del disegno, di un progetto voluto e cercato?

Alla luce di questa Presenza, sapremo noi lasciar morire ciò che deve morire e sapremo trovare lo slancio per ricominciare non solo nuovamente (ancora una volta), ma qualcosa di Nuovo? Per fare questo non è necessario fuggire dai nostri quotidiani legami, ma trasformarli dal di dentro.

Sapremo insomma vivere questo tempo “salvato” come tempo del perdono? Il tempo che sa ricominciare tutto daccapo, ma non stupidamente dimentico del passato, con il rischio che tutto ritorni sui soliti passi e prima o poi ritorni al punto di partenza; e neanche memore solo del negativo, tanto che ne restiamo fissati e irrigiditi. Il tempo del perdono rende nuovi noi stessi e le realtà che viviamo, perché eleva su un altro piano ciò che è stato, lo trasforma senza distruggerlo.

Senza dover far finta che non ci siano ombre nelle nostre storie e in noi stessi, ma resi forti dall’esperienza passata, siamo pronti ad integrarla per renderla però diversa? Sapremo perdonare e perdonarci le sconfitte – fatte e subìte – i malintesi e i fraintendimenti, una volta presa coscienza in modo più vivo del male, della sofferenza, di ciò che muore sempre ogni giorno, per essere disposti, con tutta la nostra fantasia o con quel poco di energie che ci restano, a farlo diventare la base di un rilancio tutto nuovo del modo con cui viviamo?

È quest’ultimo il tipo di storia che la liturgia propone di vivere… ma non solo oggi: sempre. A noi la scelta.

 

Selene Zorzi è teologa, saggista, docente presso l’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona, esperta di tematiche di genere
(Adista Notizie n° 37 del 27/10/2018)

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