Roma (NEV), 13 luglio 2016 – L’11 luglio il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha presentato alla stampa alcune linee di lavoro sulla materia del rapporto tra lo Stato e le comunità islamiche in Italia. In particolare ha fatto riferimento a un primo rapporto intitolato “Ruolo pubblico, riconoscimento e formazione degli imam” elaborato dal “Consiglio dell’Islam”, un organismo costituito da dodici esperti coordinati da Paolo Naso, docente di scienza politica alla Sapienza di Roma. Al Consiglio, fortemente voluto da Alfano per delineare una strategia di relazione nei confronti dell’1,6 milioni di musulmani che vivono in Italia, lo stesso ministro ha affiancato la “Consulta dell’islam italiano” che raccoglie le principali organizzazioni islamiche radicate sul territorio. In un tempo difficile di radicalizzazioni islamiste da una parte e della crescita dell’islamofobia dall’altra, quella di Alfano sembrerebbe essere una scelta orientata nella direzione del dialogo e del confronto con l’islam. Ne abbiamo parlato con Paolo Naso, che in seno alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) tra le altre cose coordina la Commissione “Studi-Dialogo-Integrazione”.
L’appartenenza a una minoranza religiosa accentua la propria sensibilità nei confronti delle discriminazioni e delle esclusioni. Ma tutto questo cresce e matura in un impegno attivo solo se si cresce in un ambiente che aiuta a vedere anche le esclusioni “degli altri” e non solo quelle di cui si è vittima. L’impegno della chiesa in cui sono cresciuto e l’azione della Federazione delle chiese evangeliche sono sempre state orientate dalla convinzione che la libertà non è il privilegio di qualcuno, magari il loro stesso privilegio, ma il diritto di tutti. Se non è per tutti non è vera libertà. Cresciuto in questa scuola di pensiero, non ho mai concepito il tema della libertà religiosa come il “problema degli evangelici” ma come una grande questione che riguarda tutti: gli evangelici come i buddhisti, gli ortodossi come gli ebrei; gli atei come gli agnostici. La questione della libertà religiosa, insomma, non è il problema delle minoranze ma un tema centrale della democrazia e della laicità italiana.
Come nasce il suo impegno di dialogo tra istituzioni e comunità islamiche?
Appartengo a una generazione che ha incontrato l’islam “tardi”, assai più tardi di quanto non capiti nell’Italia di oggi in cui i musulmani e i loro centri di preghiera hanno una grande visibilità e già alle elementari un bambino incontra Mahmoud o Fatima. Se posso permettermi un aneddoto, avevo ben più di vent’anni quando a Catania la mia comunità decise di accogliere un gruppo di senegalesi che, appena sistemati nei locali sottostanti il tempio, chiesero di pregare rivolgendosi verso la Mecca. Per me fu la scoperta di un mondo lontano che invece, oggi, abitiamo insieme all’oltre un milione e mezzo di musulmani che vivono in Italia. La vera scuola di formazione, però sono stati gli anni della direzione del mensile “Confronti”, la prima rivista italiana – lo dico con un certo orgoglio – che ha dedicato risorse, spazio e attenzione costante alla realtà dell’islam in Italia. Gli studi, le analisi e la ricerca sono arrivati dopo.
Un segno forte e simbolico che attesti che l’islam è una realtà ormai costitutiva della nostra società multireligiosa e interculturale. E che questo dato può essere una ricchezza, ma solo se sapremo costruire legami solidi di coesione sociale. Il fallimento di alcuni modelli europei di convivenza interculturale è di fronte a noi. Dobbiamo cercare strade nuove. Dall’Europa, tristemente, sembrano arrivare invece messaggi di segno opposto, sempre più segnati dal pregiudizio, dall’islamofobia e dalla volontà di escludere chi è diverso per nazionalità o religione da fondamentali diritti di cittadinanza o di libertà. E’ prematuro dire se l’Italia saprà tracciare una strada in direzione opposta, ma il segnale lanciato dal Viminale ci pare meriti attenzione e sostegno.