giovedì, Novembre 21, 2024

L’immaginario animale. Una prospettiva induista (Svamini Shuddhananda Ghiri)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Sebbene sia innegabile che il primo sguardo sull’induismo sembri l’elogio dell’horror vacui, varcata la soglia, si riscopre un moto che conduce a quell’Uno, variamente definito dai Testi sacri. Allo stesso modo, nel rapporto con la natura e gli animali, nella visione decisamente non antropocentrica dell’induismo, l’uomo è parte di un organismo che vibra all’unisono.

Le pareti aggettanti e i portali monumentali d’ingresso dei templi induisti pullulano di raffigurazioni attinte dai diversi piani di esistenza: acquatico, terrestre e celeste; sono veri intarsi scolpiti nella pietra. La poesia abbonda di figure retoriche; ugualmente affollato appare il pantheon delle divinità, fino a sfiorare i trentasei milioni!
È innegabile che il primo sguardo sull’induismo sembri l’elogio dell’horror vacui! Eppure, varcata la soglia, si riscopre un andamento fortemente centripeto dalla molteplicità della forma verso un’Unità originaria. Un moto che conduce a quell’Uno, variamente definito dai Testi sacri: l’Ekam sat del Rig-veda, il Tat o il Brahman delle Upanishad, il sostrato di tutto. Nello stesso passo vedico, i succitati trentasei milioni di dèi sono, invero, ricondotti a Uno senza secondo.
Simile a una cellula pulsante, le Scritture descrivono la manifestazione come il respiro Divino, hamsa, fiamma splendente nel cuore di ognuno. Il Sé divino che risiede negli esseri umani è il medesimo che vive in tutti gli aspetti della creazione. In una visione decisamente non antropocentrica, l’uomo è parte di un organismo che vibra all’unisono.

IL NON ANTROPOCENTRISMO DELL’INDUISMO
Il saggio vedico, immerso nelle foreste, indaga la relazione con se stesso, con gli altri esseri e con Dio. Dalla natura, che generosamente dona senza nulla chiedere in cambio, impara il senso dell’amore disinteressato. Il sole fornisce calore e luce a tutti, un albero la sua ombra; un fiume placa la sete della tigre e della mucca allo stesso modo. L’aria sostiene la vita del regnante come quella del povero, la nuvola dà pioggia a tutti indistintamente.
L’induista riscopre Dio anche nella natura sublime, nel bagliore che precede l’alba, nel tramonto, nelle maestose acque del Gange, nell’allegra danza del pavone, nel dolce svolazzare di una farfalla. Da questa contemplazione sorge la “semplice” constatazione della reciprocità tra micro e macrocosmo
costituiti entrambi dai cinque elementi.
La Caraka-samhita (4.13:5) riporta: «Ascolta, o Agnivesa! La comprensione vera sorge per colui che vede allo stesso modo tutto l’universo all’interno di sé e sé stesso in tutto l’universo». Cosa renda allora l’essere umano distinto dagli altri esseri viventi?
In teoria, questi ha maggiore capacità di decidere la qualità del proprio agire, avendo coscienza della responsabilità della sua azione. Si trova nella “via di mezzo”. Può scegliere, infatti, di intonare la sua vita in armonia con il “grande tessitore”: il dharma e scalare, così, le vette del Cielo oppure inabissarsi nel buio dell’ignoranza e dell’egoismo.
Negli animali tale autodeterminazione è ridotta in quanto sospinti dall’istinto della specie. Tuttavia, alla luce della concezione della krama-mukti, tutto ciò che esiste, prima o poi, otterrà mukti, l’identità con il Divino.
«I fiumi, o caro, scorrono gli orientali verso Oriente, gli occidentali verso Occidente. Venuti dall’oceano, essi nell’oceano tornano e diventano [una cosa sola] con l’oceano. Come là giunti non si rammentano di essere questo o quest’altro fiume.
Proprio così, o caro, le creature, che sono uscite dall’Essere, non sanno di provenire dall’Essere. Qualunque cosa siano qui sulla terra – tigre, leone, lupo, cinghiale, verme, farfalla, tafano o zanzara – esse continuano la loro esistenza come Tat. Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l’Atman. Essa sei tu» (Chandogya-upanishad, 6.10.1-2).

NONVIOLENZA VERSO IL CREATO
In questa prospettiva, l’uomo deve essere un sukrita, “fautore di bene” in accordo con il principio chiave di tutto l’induismo: la non violenza, ahimsa. Con grande poesia, un inno dell’Atharva-veda condensa il valore cardine della non violenza nei riguardi della Terra e di ogni essere vivente.
«Di qualsiasi cosa io ti privi, o Terra, possa tu averne repentino rifornimento! O purificatrice, possano i miei colpi non percuoterti nei tuoi punti vitali, nel tuo cuore!»

ANIMALI SIMBOLI DI DIVINITÀ
Su questo scenario di interrelazione profonda, si innesta un immaginario ricchissimo in cui gli animali “prestano” le fattezze alle raffigurazioni delle Divinità, divenendo scrigni di un tesoro simbolico raffinato e prezioso decifrabile su piani di lettura plurimi, da quello più essoterico, in cui l’animale si fa vettore di messaggi archetipici trasversali a molte culture, a un piano di comprensione altamente esoterico la cui decodifica avviene per via iniziatica. Ne è un esempio il serpente che può rappresentare i veleni del mondo, richiamando l’immaginario comune che lo associa al “male”, alla tentazione, ma può anche rappresentare il tempo o aspetti della fisiologia sottile dello yoga.
L’immediatezza che gli animali hanno di esprimere particolari qualità loro proprie sono alla base del loro “incarico” di essere simbolo e veicolo, vahana, delle divinità. Ecco dunque che il topolino, veicolo di Ganesha, ne rappresenta l’intelligenza viva, rapida; il leone di Durga ne trasmette la potenza e la signoria sugli istinti; il toro di Shiva ne accentua il valore di bontà e di prolificità. Così, il cigno veicolo di Sarasvati, con il suo bianco piumaggio, esprime la capacità di discernere il vero dal non vero, essendo capace simbolicamente di suggere il latte da un oceano composto di acqua e latte miscelati.
Questo richiamo alla sacralità di ogni aspetto della vita, tuttavia, ha dato anche adito alla nascita di cliché, non scevri da categorie di giudizio, che riducono spesso l’induismo alla “religione della Vacca sacra”. Sebbene la vacca sia particolarmente cara all’induista, essa è emblema della sacralità di tutto il mondo animale, simboleggia la natura intera, dipinta come una Madre munifica.
Leggere il linguaggio iconografico induista, o di qualunque fede, in senso letterale significa tradirne il messaggio più autentico. L’immaginario animale entra inoltre nel linguaggio poetico prestandosi a immagini di autentica bellezza in cui le nubi sono raffigurate come elefanti dalla cui proboscide cade la pioggia o, ancora, la danza dei pavoni in festa per l’arrivo della stagione degli amori.

ANIMALI INTERPRETI DELLE VICENDE UMANE
Una sensibilità psicologica presente nella cultura greco-latina che sceglie gli animali come protagonisti di fiabe e favole, si ritrova in testi quali l’Hitopadesha o il Pancatantra, che mostrano la capacità di scandagliare l’animo umano attraverso personaggi animali dalla psicologia definita. Grazie all’espediente dell’antropomorfismo, infatti, gli animali ritraggono i sentimenti umani come dei cristalli che rifrangono lo spettro luminoso di emozioni e stati d’animo del lettore. Ecco che, se ci si lascia trasportare dal flusso degli aforismi, si è guidati a comportarsi in modo retto nel campo delle interazioni umane.
Chissà che tali insegnamenti non riescano a rendere questa grande famiglia quale è il mondo, un luogo in cui il rispetto e la non violenza diventino la base di ogni pensiero, parola e azione.
«La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali» (Mahatma Gandhi).



[pubblicato su Confronti 09/2019]

di Svamini Shuddhananda Ghiri. Monaca induista, Unione induista italiana

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