mercoledì, Dicembre 18, 2024

Prego dunque divengo (don Paolo Scquizzato)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Arrivato a questo punto della mia vita umana e spirituale, ritengo la preghiera – attestazione ultima della mia umanità – non un domandare per avere, ma un aprirmi per essere.

Atto di povertà disarmante: nello spazio di me lasciato disponibile, nella mia non-resistenza, posso fare finalmente esperienza dell’azione dello Spirito che può manifestarsi, avvolgermi e trasformarmi. Ad oggi, la preghiera per me è “attesa senza oggetto” (Simone Weil). Rimanere aperto e disponibile, in attesa che mi raggiunga e si compia non ciò che ho desiderato e impetrato, ma ciò che so essere bene per me.

Attesa dell’insperato, dell’inedito, dell’impossibile.

Per giungere a questa consapevolezza il cammino è stato lungo. Una maturazione spirituale ma soprattutto conversione, nella sua accezione più letterale: cambiamento di mentalità, di prospettiva, caduta di pregiudizi. Conversione che mi ha portato a guarire dalla visione di un dio che abita l’alto dei cieli, ente sovra-naturale, guardiano delle sue creature, sensibile alle loro invocazioni, attento alle loro azioni, stampella alle loro insufficienze, capace di vivere sentimenti sino a intervenire se lo ritiene opportuno, o astenersi dal farlo, per premiare, infine, i buoni e condannare i cattivi.

E così oggi mi sto pian piano riconciliando con l’impotenza di Dio, e la sua impossibilità di intervenire sul mondo degli umani e sul corso degli eventi della creazione.

Credo oggi, che occorra crescere nell’amicizia e relazione con un Amore che impregna tutte le cose, come l’acqua imbeve la terra donandole vita, e facendola fiorire. Con un Dio che è vita, amore, luce, energia dentro ogni cosa, essendo ogni cosa energia. Come ebbe a dire san Tommaso, Dio è da considerarsi l’essere stesso, e non ente tra gli enti. Dio è “essere di ogni cosa che è”, fondo, coscienza.

La preghiera è dunque per me collegarmi, abitare questo campo di energia che è dappertutto, e in cui io sono immerso e in questo modo poter ascendere alla mia pienezza, venire finalmente alla luce, dopo essere nato alla vita. Ecco, la preghiera come atto di ascesa alla pienezza di me.

Ed è stupefacente costatare che tutta la creazione è in stato di perenne preghiera, perché attingendo alla Vita, essa continua ostinata la sua creazione, in un’immensa gestazione. Paolo l’aveva intuito, che noi esseri partecipiamo dell’essere per immersione: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28), e che la creazione attende di essere anch’essa condotta alla nascita completa per via di gestazione: «Tutta la creazione – infatti – geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto» (cfr. Rm 8,22).

Prego, e in questo modo faccio parte dello spirito di Dio, il medesimo che aleggiava sulle acque all’inizio della creazione, come ci racconta il Libro del Genesi, ed ora è «l’impulso interiore che anima il bosone, il quark e, l’atomo, molecola, la cellula, l’acqua, l’aria, la pianta, i boschi, gli animali, la terra, le stelle, galassie, l’universo aperto e senza limiti» (José Maria Vigil).

Per cui la mia preghiera non può ridursi in un rivolgersi ad un essere che trascende la realtà, con la presunzione di poterne magari determinare le decisioni. Colui che chiamiamo Dio non ha potere sulla realtà, sulla materia, alla stregua di un mago col proprio cilindro.

La natura, la creazione, ogni singola particella fa la sua strada, obbedisce a proprie leggi interne. La materia, che altro non è che energia in movimento, continua e continuerà per sempre la sua danza. Ma noi sappiamo che non esiste danza senza colui che danza. Ebbene, ciò che chiamiamo Dio è la danzatrice che fa sì che esista la danza della creazione in una perenne creazione.

A questo punto una domanda s’impone: ma la preghiera cristiana non ha come fondamento la relazione con un tu, con un Dio sovrannaturale che, come insegnatoci da Gesù, rimane incontestabilmente Padre? Lascio la parola al grande monaco cristiano Henry Le Saux:

«La Divinità è quella profondità di me stesso che è al di fuori della durata, della contingenza, a sé, ecc. Il Dio vivente non è necessariamente colui che diciamo Tu. Ogni Tu rivolto a Dio è una menzogna, un errore. Poiché Dio non è un Tu come gli altri Tu che conosciamo, i Tu che noi concepiamo. Dire Tu a Dio è renderlo non vivente. Chi crede di conoscerlo si allontana da lui. Il Dio vivente, non s’incontra che nel fondo di sé, nel raccoglimento al fondo di sé, al fondo della propria vita, al di fondo di ciò che per cui noi siamo viventi. Non bisogna cercare Gesù né a Betlemme, né a Nazaret, né a Cafarnao, né sul Calvario, nemmeno all’uscita dal sepolcro una mattina di Pasqua. Bisogna cercarlo là dove è realmente il Dio vivente, absconditus in sinu Patris. E il seno del Padre è il fondo di me. Questo Grund (fondo) che Gesù chiama “Abba”(Risveglio a sé, risveglio a Dio)».

E ora un’ultima domanda: questa creazione in espansione che altro non è che Dio che si va rivelando (Leonardo Boff), è cosciente di sé? È intelligente? La scienza pare suggerirci di sì. Essa suggerisce che «tutto ciò che ci circonda, ci si rivela dotato di ipseità, di intelligenza (leggere dentro, cogliere il significato interno che muove tutto). Le galassie, le stelle, gli esseri viventi si auto-organizzano e si auto-regolano, e si interrelazionano in sistemi annidati sempre più ampi e complessi. La nuova cosmologia ci sta dicendo che l’immagine che siamo chiamati ad avere di questo mondo ha più a che fare con il pensiero che con una macchina» (José Maria Vigil).

Perciò, nel corso delle cose, in questo universo di cui faccio parte, anzi, di cui sono parte, in via di espansione e compimento, mi fermo e prego. E pregando divento consapevole dell’energia che mi abita, e da cui mi lascio portare verso la pienezza dell’essere. Mi lascio fare, mi lascio trasformare. E in questa mia preghiera, meno resistenza oppongo – con parole, immagini, pensieri, desideri e preghiere – maggiore sarà la mia trasformazione, perché più forte sarà la Sua azione.

La preghiera, lungi dal toccare e influenzare Dio, trasforma me stesso. Attingendo alla fonte della vita, questa trasforma la mia portandola al compimento.

Prego dunque divengo. Preghiera, atto di trasfigurazione.

Per questo sento sempre più l’esigenza di una preghiera silenziosa, vuota, del sapore del nulla, come vuoto e nulla fu quell’istante prima di quel Big-Bang da cui scaturì tutto l’esistente. Vuoto non come mera assenza, ma come “profondità abissale di energia” dove tutto fu finalmente semplicemente possibile.

E in questa preghiera, spazio di pura possibilità, si libereranno in me – creatura trasfigurata – nuove energie da sempre possedute ma non ancora utilizzate, presenti ma sconosciute. Come ebbe a dire Miguel de Unamuno: «Ognuno di noi ha risorse inutilizzate, angoli dell’anima, cantucci e sacche di consapevolezza che se ne stanno addormentate. E possiamo anche morire senza averle scoperte, per l’assenza di uno spirito affine che ce le riveli». Ebbene, allora prego, sì prego ogni mattina e ogni sera nel silenzio di me per entrare in contatto con questo spirito affine, finché si riveli e possa questa mia potenzialità prendere carne. E a quel punto potrò cominciare a prendermi cura di chi mi sta attorno, cominciando a fare scelte indirizzate a seminare luce nel buio che mi circonda, e a portare pace e amore – per come mi è possibile – nel male che oscura ancora per un po’ questo nostro splendido mondo, certo che come dice Raimon Panikkar: «Nell’atto di pregare l’Uomo partecipa al dinamismo che è al centro della realtà e penetra nel cuore del mondo».

E giungerò così infine a fare esperienza di Dio nei piccoli e semplici gesti di bene di ogni giorno, nei fratelli e sorelle che incontrerò, nell’atto di cura che rialzerà qualcuno dal fango. Consapevole che Dio altro non è che «l’amor che move il sole e l’altre stelle»

 

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