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Vivere nella resistenza. In memoria di Dorothee Solle (A. Bianchi)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

«C’è in tedesco un detto molto appropriato: Wer sich nicht wehrt, lebt versikehrt [Chi non combatte vive male]. Da un punto di vista religioso, chi non combatte vive male davanti a Dio. Chi non combatte non crede nell’amore né nella speranza. Secondo me, un gruppo di cristiani che danno a sé stessi il nome di chiesa, sono chiesa solo se combattono. Vivere nella resistenza: ecco quel che significa sperare contro la speranza».

Fa un certo effetto leggere queste parole nell’anniversario della Liberazione. Le ha scritte Dorothee Solle, teologa protestante, tedesca nata nel 1929, che con il suo pacifismo radicale e la prospettiva femminista è stata capace di riconfigurare anche quel verbo guerrafondaio, “combattere”. Battersi-con, battersi e muoversi e vibrare insieme ad altre persone – combattere “per” tutti e tutte e non “contro” qualcuno. Se c’è un “contro” (e c’è), è quanto più contraddice lo Spirito di Pentecoste: l’uniformità, che poi è cifra di ogni dittatura. 

È morta vent’anni fa esatti, Solle, il 27 aprile del 2003. Ricordarla oggi significa provare a leggere la data del 25 aprile con un occhio teologico, senza ridurla alla generica categoria di “libertà” ma mantenendo il riferimento storico e politico. Sembra sempre che le ricorrenze civili non abbiano nulla da dire o da suscitare al cristianesimo; forse una teologa come Solle può scuotere le chiese a un’autoriflessione, nel giorno della festa della Liberazione dal nazifascismo – il complemento è importante.

Per le cittadine e i cittadini italiani quest’anniversario è sempre un’occasione preziosa per chiedersi come si fa a custodire la democrazia e a prevenire le incursioni di un potere dispotico. E per chi riconosce, oltre a un’appartenenza civile, anche un’appartenenza ecclesiale, opporsi a un potere violento è qualcosa da fare non solo in fedeltà alla democrazia ma anche (e soprattutto) in fedeltà al Vangelo. È il Vangelo che chiede di prendere le distanze dalle posizioni autoritarie, se non altro perché l’autorità di Gesù, sempre ospitale, rientra nella “regola d’oro” delle democrazie: quella secondo cui il buon diritto democratico si vede da quanto liberamente vi si può esprimere il dissenso. È proprio il Vangelo a sostanziare una resistenza civile di cristiane e cristiane agli assolutismi: va da sé che le chiese debbano mettersi in seria discussione quando la loro conformazione risulta antidemocratica.

Cristofascismo

Eppure nemmeno la fede in sé è al sicuro da deformazioni. Nel 1979, a una certa distanza di lucidità dagli eventi storici della fine della guerra, Solle coniò il termine cristofascismo per descrivere quella fede cristiana che parla di un Gesù astratto, assolutamente avulso dalle esperienze di liberazioni reali, dalla giustizia e dalla pace. Paradossalmente, si tratta di un Gesù molto autoritario, un Gesù estremamente normativo perché super partes. Nei Vangeli, invece, l’uomo di Nazareth prende sempre le parti di qualcuno, è sempre schierato, e proprio dalla parte di colui/colei che non ci si aspetta: la straniera, la peccatrice, l’emorragica. La fede del cristofascismo, sostiene Solle «si considera apolitica, ma in realtà rafforza oggettivamente le posizioni politiche di potere».

La neutralità è un’illusione: nessuno può autoassolversi col silenzio (non dopo Auschwitz!), e le chiese cristiane devono esserne avvertite. Solle lo dice con parole molto forti: «Non basta scrivere sulle proprie bandiere il nome di “Gesù” al posto di quello di Hitler o di Mussolini per neutralizzare la mania di adorare o di venerare il potere». È una ingenuità tutta cristiana quella di credere che il solo nome di Gesù sottragga ai ruoli di potere ogni dinamica di violenza. Basterebbe che le chiese in Italia s’interrogassero ciascuna sulle proprie tendenze all’unanimismo, ovvero la tentazione di ammazzare la pluralità ammutolendo i conflitti interni.

È necessario vegliare sulle pratiche che avallano e preparano la violenza fin dentro le comunità cristiane – una su tutte, la costruzione di una fede “al singolare” anziché per una comunità: «Il Cristo dei cristofascisti di fatto ama solo te, te e te, ma non tutti noi».

Donne che vivono nella resistenza

Dunque la pluralità è principio di resistenza. Invece l’universale maschile, l’infausta abitudine degli uomini di parlare come se fossero l’assoluto e azzerare le differenze, è un presupposto funzionalissimo a un potere violento.

Solle, che studiò teologia in Germania ma insegnò solo negli Stati Uniti, notò presto che per le donne c’era poco spazio, sia fisico che di pensiero. Così approdò negli anni a elaborare tutta una serie di attenzioni che avevano l’intento di smascherare quell’universale: in alcune pagine, per esempio, nominò Dio al femminile. Se bisogna spezzare il cerchio chiuso della virilità, le donne sono già oltre il confine; esse sono il parziale, la minoranza che fa resistenza… a volte attrito.

L’esperienza storica femminile è un’esperienza di resistenza, cioè di progettazione di un potere alternativo; le donne hanno inaugurato pratiche originali in un sistema da cui sono state a lungo rigettate. Non a caso Solle, negli anni della guerra del Vietnam, inventò con alcuni amici le Veglie Politiche Notturne, dove gente di ogni appartenenza partitica e confessionale si radunava per pregare, pensare e organizzare azioni cittadine.

Ecco cosa significa riconfigurare il verbo “combattere”, lottare “per” l’intera comunità e non “contro” un nemico. Lo sanno bene le teologhe di genere che quando parlano ogni volta ribadiscono: il loro lavoro vuole sempre essere a favore della Chiesa tutta, perché una voce sola, maschile, non solo fa loro violenza censurandole, ma mistifica il vangelo. È lo Spirito a soffiare “contro” l’astratto universale, è lo Spirito che fa resistenza a fascismi e cristofascismi.

Alice Bianchi, 25/04/2023

https://ilregno.it/blog/vivere-nella-resistenza-in-memoria-di-dorothee-solle-alice-bianchi

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