martedì, Maggio 21, 2024

La teologia di un intagliatore di cucchiai (C. Bauer)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Da diversi anni nel corso delle mie ricerche teologico-pastorali, mi sono trovato a riflettere sul concetto, molto contemporaneo, di Leutetheologie (traducibile come “teologia del popolo o della base”). Recentemente ho ri-scoperto un testo tardomedievale che mi sta aiutando a sviluppare il mio ragionamento teologico-scientifico: il dialogo, scritto in latino, Idiota de sapientia (“L’incolto sulla sapienza”) di Niccolò Cusano o Niccolò da Cusa – Nikolaus von Kues (1401-1464). Il protagonista di quest’opera in due volumi del 1450 è un (presunto) fabbricante di cucchiai privo di istruzione che, tuttavia, non è un “idiota” dal pensiero limitato. Le riflessioni che seguono sono un contributo (“Ränder der Epistemik”) a una conferenza svoltasi a Francoforte (“Epistemologie der Ränder”), che cerca di orientare in modo costruttivo il dibattito in corso circa la cosiddetta teologia analitica.

Naturalmente non è un semplice artigiano a parlare in questo dialogo costruito ad arte, ma piuttosto il genio universale ed estremamente colto di Nikolaus von Kues, la cui opera teologica di ampio respiro (e di frontiera!) mi ha a lungo affascinato (…non per niente il Cusanuswerk/Opera N. Cusano, al cui sostegno devo molto come studente e dottorando, è stato intitolato proprio a lui!). Nelle affermazioni del protagonista parla Cusano stesso esprimendo, tra le altre cose, un grande rispetto ed attenzione per la “teologia dei piccoli/degli ultimi”, che non è si è formata sui testi, ma che spesso è “ispirata dalla vita” (Bernhard Spielberg).

Büchertheologie vs. Leutetheologie


L’ambientazione stessa dell’opera è significativa: l’intagliatore di cucchiai di cui parla Cusano vive in una piccola stanza sotterranea accanto al (fittizio) “Tempio dell’Eternità” nel Foro di Roma: è il 1450. Lì – tra le rovine della “città eterna” – incontra un oratore colto che lo coinvolge in un’interessante conversazione. Il dialogo si incentra sulla differenza tra “teologia del libro/appresa sui libri” quindi erudita, colta, “alta” e “teologia degli uomini/del popolo” basata sulla saggezza: solo quest’ultima offre un nutrimento esistenziale in grado di dare senso alla vita. La professione di artigiano (“coclearius”) non è scelta a caso dall’autore. Dopo tutto, il cucchiaio era l’unica posata usata dalla gente comune nel Medioevo. E seguendone l’etimologia, la parola si rivela importante anche in senso figurato: sapientia (“saggezza”) deriva da sapere (“gustare/sapere di”).

“La saggezza è saper gustare […]. E non bisogna considerare saggi coloro che parlano solo a parole e non sulla base del gusto. […] Attraverso la sapienza […] si trova tutto il gusto interiore. Ma essa stessa […] non può essere gustata in tutto il suo sapore. È dunque gustata senza essere gustata, perché è superiore a tutto ciò che può essere gustato […].” (I,10).

Il punto di partenza empirico


Il fabbricante di cucchiai chiede al suo interlocutore, in modo molto socratico: “Dimmi innanzitutto: cosa vedi accadere qui nel mercato?”. (I,5). Il colto oratore risponde: “Vedo contare denaro, pesare merci in un altro angolo, misurare l’olio e altre cose”. (I,5). L’artigiano allora richiama l’attenzione sulla dimensione più profonda di ciò che assieme stanno osservando: “Ora, oratore, prendi nota di cosa e per conto di chi sta accadendo tutto, e dimmelo”. (I,5). L’interlocutore risponde prontamente: “Attraverso la distinzione”. (I,5). La sua controparte gli chiede allora come avviene questa distinzione:

“L’Uno non è forse l’Uno una volta, e il Due l’Uno due volte, e il Tre l’Uno tre volte, e così via? […] Come l’uno è il principio del numero, così il peso più piccolo è il principio del pesare e la misura più piccola è il principio del misurare. Il peso dovrebbe essere chiamato oncia e la misura petit. […] Così […] il contare si fonda sull’uno, il pesare sull’oncia e il misurare sul petit. […] Ma come si arriva all’unità, come si arriva all’oncia, come si arriva al petit?”. (I,5; I6)

Speculazione teologica


L’oratore risponde: “Questo non lo so. Ma so che l’unità non si raggiunge attraverso un numero, perché il numero viene dopo l’Uno”. (I,6). Con una precisione quasi analitica (o almeno filosofica!), l’artigiano lo conduce poi, passo dopo passo, astraendo dall’empiricamente percepibile e portandolo ad interrogativi riguardanti questioni teologicamente molto avanzate.

(…)

Toccare il mistero di Dio


Nella saggezza teologica propria della “gente della strada” (Madeleine Delbrêl), l’empirismo della vita vissuta è antecedente – e solo dopo segue quella che viene chiamata (con un vocabolo che sa un po’ di fantascienza teologico-filosofica!) “estrapolazione speculativa/spekulative Extrapolation” (Steven Shaviro): il ripensamento creativo di ciò che è empiricamente dato. Il suo livello più alto raggiunge la dimensione di ciò che è fondamentale e tocca così il mistero di Dio:

“Come ho parlato prima dell’unità, dell’oncia e del petit, così dobbiamo parlare di tutto in termini di principio del tutto. Infatti, il principio del tutto è ciò da cui, in cui e in base a cui è stabilito tutto ciò che può essere stabilito da un principio, e tuttavia non può essere toccato da nulla […] “. (I,8).

Il fabbricante di cucchiai dunque “gioca” ora con i termini/parole in questo contesto: parla infatti del principio indicibile del dicibile, del principio irriconoscibile del riconoscibile, del principio non limitabile del limitabile e del principio non determinabile del determinabile.

(…)

Gli opposti coincidono


Nel testo De docta ignorantia, Cusano aveva già sviluppato la formula di Anselmo di Canterbury relativa a Dio (“ciò al di là del quale non si può concepire nulla di più grande”) nel senso di una coincidentia oppositorum, in cui piccolezza empirica e grandezza speculativa coincidono nel mistero di Dio.

(…)

Docta ignorantia

Teologicamente, queste complesse considerazioni si traducono in una docta ignorantia da parte dell’uomo – una conoscenza fondamentale della propria “ignoranza/non sapere” (I,4), per cui l’intagliatore di cucchiai è tutt’altro che un “uomo ignorante” (I,4). Dice infatti all’oratore:

“Questa è forse la differenza tra me e te: tu pensi di essere sapiente, mentre non lo sei; quindi sei arrogante. Io invece riconosco di essere un ignorante, quindi sono più umile. In questo sono, forse, più istruito di te”. (I,4).

Ciò che l’artigiano compie qui è una grande arte teologica. Egli, infatti, conduce l’interlocutore, nel contesto di una teologia empirica e antropologicamente orientata, dal concretamente piccolo all’astrattamente grande. Così facendo delinea bene il percorso esperienziale del pensiero teologico. (…) A volte quindi vale la pena, anche in teologia, fare qualcosa di apparentemente “folle” a prima vista: guardare nell’archivio e riscoprire le opere tardomedievali che riguardano la teologia pratica per metterle in relazione con la ricerca teologica e pastorale “tardomoderna/post-moderna”. Un richiamo (solo apparentemente) paradossale al futuro del discorso su Dio.

Christian Bauer

*nella forto di copertina il Prof. Bauer presso la Cusanus-Akademie a Bressanone

(testo liberamente tradotto da Paolo Zambaldi)

testo integrale in lingua originale: https://christian-bauer.blog/theologie-eines-loeffelschnitzers/

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