Idrovolante Edizioni, 2021 – Un ottimo rapporto sul conflitto che infuria in Donbass. L’autore ha raccolto una notevole quantità di dati e notizie senza rinunciare a uno stile piacevole, che sostiene una narrazione coinvolgente. Un reportage vecchio stampo che non delude.
“Reporter dal fronte del Donbass”, così si presenta Vittorio Nicola Rangeloni: “Scrivo, viaggio e sogno un mondo più giusto”, aggiunge, e dichiara di aver scelto l’informazione come strumento di lotta anziché le armi.
Classe 1991, nel 2021 questo giovane autore ha dato alle stampe Donbass. Le mie cronache di guerra, pubblicato da Idrovolante Edizioni. Nell’introduzione lo scrittore specifica immediatamente che il suo non è un saggio storico, bensì – come recita il sottotitolo – una narrazione di fatti d’attualità.
Si tratta di un testo eccellente per vivacità ed espressività, da leggere tutto d’un fiato nonostante le sue 332 facciate, che scorrono veloci grazie alla felicità di scrittura: pagine, forse, redatte in parte di getto, ma capaci di restituire con realismo le situazioni più crude.
Rangeloni (per motivi familiari) conosce bene la lingua russa e sa muoversi sui campi di battaglia, inoltre ha assistito ai prodromi del conflitto nel Donbass e ai suoi principali sviluppi sino a oggi. La prima parte del volume si snoda così dalla crisi politica alle proposte criminali di mettere al bando la lingua russa, fino alle misure repressive di Kiev che causarono centinaia di vittime e spinsero le popolazioni del Donbass a passare dalla protesta pacifica all’autodifesa armata:
“La rivoluzione di Kiev ha rappresentato il trionfo dei doppi standard e dell’ipocrisia occidentale. Un laboratorio dove sperimentare e attuare tecniche di comunicazione e di interferenza negli affari di altri Stati, spacciando il tutto per democrazia”.
Sono palesi, nelle analisi dell’autore, le responsabilità degli Stati Uniti:
“Una naturale alleanza continentale tra gli Stati dell’Unione Europea e la Federazione Russa avrebbe potuto ridimensionare l’influenza a stelle e strisce sul Vecchio Continente”.
La seconda parte delle cronache entra nel vivo della battaglia nella “trincea d’Europa”, qui sono raccolti i resoconti delle sofferenze degli abitanti delle regioni visitate dall’attento testimone. Sono riassunti i difficili tentativi di ricostruire un assetto amministrativo adatto a difendere gli abitanti di quelle zone, duramente colpite dall’odio degli ultranazionalisti ucraini, artefici di bombardamenti e attentati veri e propri. Ma non tutti dall’altra parte del fronte amano la guerra, spiega il reporter:
“Nella sola notte del 4 agosto del 2014, furono 436 i soldati ucraini, tra cui 164 guardie di frontiera, che abbandonarono le loro posizioni e, contro ogni ordine imposto dall’alto, cercarono protezione in Russia”.
A questi uomini vanno purtroppo aggiunti numerosi profughi: nel novembre del 2016 circa 1,15 milioni di persone trovarono rifugio presso la Federazione Russa, “nel Paese, che, per l’Ucraina e i politici di mezzo mondo, era l’aggressore”.
I combattenti del Donbass non sono mossi da sciovinismo:
“Sebbene quei miliziani fossero in conflitto con l’esercito ucraino non trovai odio o rancore contro quello che una volta era stato il loro Paese. Il nemico non era il popolo ucraino, bensì il governo di Kiev, alla pari dei mandanti di questa guerra civile: gli Stati Uniti con la loro politica imperialista”.
Dialoghi, reminiscenze e sacrifici di guerrieri inquieti, frammisti a curiosità culturali e storiche, con il loro spessore emotivo, arricchiscono la relazione dell’italiano, che dosa questi elementi con una valentia e un gusto che chi scrive fatica a trovare in tanti giornalisti navigati, che pure hanno pubblicato per grandi editori.
Tra i capitoli che formano il reportage, i ricordi della grande famiglia delle Russie si incontrano come nel magnifico dipinto Eterna Russia, una tela del 1988 del maestro Ilya Glazunov (1930-2017), illustratore delle nuove preziose edizioni di Dostoevskij. Rangeloni tra i “russofili” si è trovato davanti ideologie diverse fra loro, come i simboli della falce e del martello sulle divise dei comunisti e i vessilli imperiali dei legittimisti:
“C’erano parecchi cosacchi, sostenitori della fede ortodossa e spesso vicini ad idee monarchiche. Lo stesso comandante Mozgovoy era stato un discendente dei cosacchi del Don. Uno dei simboli principali cari al fondatore del battaglione era stata la bandiera nera del generale zarista (e cosacco) Baklanov, sulla quale era raffigurato un teschio e la scritta riportante il verso finale del Credo: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen”.”
Ciò che unisce questi volontari è l’universalismo russo, il desiderio di costruire una pace multiculturale e pluralista, l’unico ordine adeguato per la vita di una civiltà che è grande perché è molteplice.
Capita che la gente comune del Donbass, rea solo di aver dissentito dalle autorità di Kiev, sia sottoposta a infami schedature politiche sulla rete, ma molti cittadini accettano con orgogliosa ironia questo marchio di ribellione, fermi nel loro patriottismo e contenti di aver difeso la loro terra anche solo con un semplice video caricato su YouTube. E se il nemico li teme e li tiene d’occhio significa che anche quei filmati hanno una forza, e tutti possono dare il loro contributo alla resistenza.
Tra gli articoli delle principali testate italiane, però, non si trova quasi mai notizia delle bombe sui villaggi e della morte di tanti innocenti:
“Nel corso degli anni seguenti alla rivoluzione i media occidentali hanno continuato a ripetere il ritornello dell’“invasione russa” e dell’“ingerenza del Cremlino” in Ucraina per giustificare le sanzioni economiche contro Mosca ed il supporto economico e militare a Kiev da parte dell’Occidente, dimenticandosi che, senza lo zampino degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, non ci sarebbe mai stato nessun EuroMaidan. Gli stessi giornalisti – tornando al racconto di quel che accadde nell’inverno del 2014 nel centro di Kiev – non spesero mai una goccia di inchiostro delle loro penne per descrivere le violenze subite dalle forze dell’ordine per mano dei manifestanti, i quali, al contrario, vennero descritti come pacifici studenti, desiderosi di entrare a far parte del mondo democratico. Al termine delle rivolte si contarono 17 morti tra poliziotti e militari, oltre ai 1.100 feriti”.