sabato, Aprile 27, 2024

Fedeltà omoaffettiva: su un libro di G. Geraci (A. Grillo)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Nel suo libro “Nella buona e nella cattiva sorte. Gli omosessuali cristiani e la scommessa di costruire una relazione ‘per sempre’”, G. Geraci offre un quadro molto dettagliato dei sentimenti e dei pensieri che accompagnano una stabile relazione di amore tra persone dello stesso sesso. Alcune riflessioni suscitate dal libro sul piano teologico permettono un avanzamento non piccolo nel corpo della Chiesa, presa ancora dalla tentazione di confondere ordinamento ecclesiale ed ordinamento civile. La Prefazione, di cui qui pubblico solo la parte iniziale, può essere letta nella sua integralità scaricando il volume, che è disponibile gratuitamente (qui)

Prefazione di Andrea Grillo

Amore e relazione omoaffettiva: un uso nuovo di parole antiche

Nel piccolo volume scritto da G. Geraci leggo il riflesso di una ricerca che attraversa l’intero campo della riflessione teologica del cattolicesimo dell’ultimo secolo. Il quale si interroga, da prospettive molto diverse, sulla medesima questione: come possiamo offrire qualche chiarimento al nuovo uso della parola “amore”, cercando di salvarne il “fenomeno”? Quello che J.-L. Marion ha chiamato “fenomeno erotico” chiede chiarimenti nuovi, rispetto a quelli che la tradizione ci ha offerto. In questi nuovi chiarimenti dobbiamo integrare tre accezioni diverse della parola amore. Una accezione “mistica”, una accezione “morale” e una accezione “sentimentale”. Amore è, allo stesso tempo, il nome più bello del Dio fatto uomo, il compito più alto dell’uomo creato e salvato e la passione più forte del corpo di carne e di spirito. Amare implica il corpo di Dio, il corpo dell’altro e il corpo proprio. Per questo amare è anzitutto questione di “tatto”, di “volontà” e di “comandamento”.

Anche la teologia ha scoperto di aver confuso i piani e di aver parlato dell’amore ma non molto in rapporto al matrimonio. E di aver parlato del matrimonio, ma non molto in rapporto all’amore. Così è stato facile, per la teologia cattolica, restare letteralmente scandalizzata dalla pretesa di fare dell’amore presente nel matrimonio una “esperienza comune” a tutti gli uomini e le donne. Questo sviluppo tardo-moderno, che ha personalizzato l’istituzione matrimoniale, ha reso permeabile il matrimonio al sentimento dell’amore e all’amore come passione. Questo sviluppo allo stesso tempo ha arricchito e ha complicato il quadro istituzionale e normativo. Se “consenso” e “esercizio del diritto sul corpo dell’altro” sono ora mediati dal sentimento, dalla emozione, dalla passione, la loro relazione non può essere gestita soltanto sul piano dei contratti e dei contatti: il cuore appassionato e la dipendenza dall’altro diventano elementi insuperabili di ogni legame che prende il nome di “matrimonio”: la forma dell’amore segna il modo con cui gli uomini e le donne si legano, si prendono cura dell’altro, generano e rendono presente il mistero di Dio.

L’automatismo che fa di ogni “matrimonio tra battezzati” un sacramento è un principio che semplifica la burocrazia, rassicura la legge oggettiva, ma complica le esperienze personali e le coscienze ecclesiali. Su questa linea di confine, sottile ma decisiva, si colloca oggi anche la riflessione sull’”amore coniugale” come possibilità riferibile non solo alla relazione tra uomo e donna, ma anche alla relazione omoaffettiva. Il nome di Dio che è amore, diventa principio di un compito di amore, e si illumina di emozione, di passione e di sentimento, per tutti coloro che amano in modo stabile, fedele, resistente, in modo quasi ostinato. Ebbene sì: la persistenza ostinata e forte nella relazione di amore riguarda anche la relazione omoaffettiva. Per questo diventa rilevante e significativa anche per la teologia cristiana.

La ricomprensione della relazione omoaffettiva

La possibilità di estendere l’amore coniugale anche alla relazione omoaffettiva implica la disponibilità ad entrare, con il cuore e con l’intelletto, nella forma concreta di questa relazione. Una lunga tradizione teologica si è tenuta ben lontana da questa possibilità, squalificando anzitutto moralmente tale relazione, definendola a priori “contro natura” e “disordinata”. La dimensione “contro natura” e il “disordine” derivavano, essenzialmente, da una connotazione che non abilitava la relazione omoaffettiva alla generazione. Essendo stato, per lungo tempo, proprio questo “bonum” del generare figli il criterio primario di giustificazione di ogni esercizio della sessualità eterosessuale, la possibilità di concepire come legittima una relazione tra due uomini (o tra due donne) era sentita come una contraddizione con la realtà naturale e con la dimensione istituzionale, in quanto percepite come normative. Fino a che la “società dell’onore” ha posto questa visione come regola inaggirabile di rispetto sociale, non si dava alcune possibilità di immaginare un “coniugio legittimo” che escludesse, per principio, ogni generazione di prole.

In questo volume G. Geraci procede ad una dimostrazione “per esperienza” – diremmo dal basso e a posteriori, scritta con l’intelletto e con il cuore – di questa possibilità tradizionalmente esclusa per principio (o, meglio, per pregiudizio). Se in teoria possiamo sempre dimostrare come possibile una realtà, può accadere però che di fatto la realtà anticipi la teoria e mostri in anticipo tale verifica. Così se qualcosa sarà stato vissuto come reale, risulterà vano e quasi comico dimostrare la sua impossibilità.

La posizione che il magistero cattolico ha assunto sul tema ha ribadito in molti casi questo “principio indimostrato” (ma ritenuto del tutto convincente): ogni relazione omosessuale sarebbe “di per sé” incapace di vera alterità e perciò si ridurrebbe ad “autocompiacimento”. In altri termini, sarebbe solo sentimento, emozione, passione, senza alcuna dimensione di compito, di responsabilità e di testimonianza.

Se è vero che la relazione eterosessuale e la relazione omosessuale non sono uguali, è altrettanto vero che le differenze non impediscono di scoprire numerose analogie e profonde somiglianze. Soprattutto non si può affatto escludere che una relazione omoaffettiva possa essere esperienza di alterità, messa alla prova del carattere, esercizio delle virtù, attestazione della fedeltà, compito di una relazione “individua” e “per sempre”. Nel testo di Geraci, che non si nutre solo di esperienza diretta, troviamo una lunga citazione di un testo di Albino Luciani, scritto prima che diventasse papa Giovanni Paolo I, in cui vengono ricordate alcune sagge parole di S. Francesco di Sales a proposito della relazione di amore coniugale. Quel testo, che è degli anni 70 e che è stato scritto esclusivamente in rapporto alle relazioni eterosessuali fedeli e indissolubili, può essere applicato oggi, senza difficoltà, anche alle relazioni omosessuali. Questo fatto, nella sua realtà, ha già superato l’esame della possibilità. La Chiesa non deve dichiarare impossibile ciò che è reale, ma è chiamata a chiedersi perché mai le sue categorie non riescono ad onorare la realtà e preferiscono difendersi da essa, non riconoscendone la qualità. Un concetto di “natura” troppo rigido e cieco impedisce alla dottrina di vedere la realtà. La realtà di un “coniugio” diverso dal “matrimonio” potrebbe essere ridotta ad una costruzione ideologica contemporanea, ma forse potrebbe essere soltanto una categoria classica – ben presente lungo la storia – oggi capace di leggere la relazione coniugale non solo in termini di generazione, ma anche in termini di fedeltà e di stabilità1. Potremmo forse pensare che sia anche la Chiesa, e non solo molti stati moderni, a considerare come un “bene da tutelare” la esperienza di amore fedele e indissolubile tra persone dello stesso sesso? Potrebbe forse capitare che la lotta contro la istituzionalizzazione della relazione omoaffettiva diventi auspicio e suggerimento di un riconoscimento istituzionale ed ecclesiale?

Il compito di una teologia non solo “retro oculata”

Una teologia che non guardi solo indietro, ma anche avanti – poiché il Signore che è già venuto, deve però ancora venire – può aiutare il magistero della Chiesa a riconoscere questi fatti come portatori di “beni” e a custodire la sostanza della antica dottrina del depositum fidei non solo accettando, ma anzi promuovendo la sua urgente “riformulazione”. Ogni battezzato, in Cristo, entra in una vita casta, ossia in una vita di sequela del Signore, nelle forme di esistenza che si aprono davanti al cammino di ciascuno. La castità è minacciata dalla mancanza di fede, di speranza e di carità. La castità è minacciata dalla mancanza di giustizia, di prudenza, di temperanza e di coraggio. La castità è minacciata dalla superbia, dall’invidia e dall’ira. I “vizi della castità” sono molto più ampi del secco elenco con cui il catechismo li elenca, in una sequenza che oggi appare poco meditata, ispirata più dal divieto di “atto impuro” che dalla sete di “vita santa dei discepoli del Signore”. In questo elenco, come riproposto rozzamente dal Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica, si legge:

“Sono peccati gravemente contrari alla castità, ognuno secondo la natura del proprio oggetto: l’adulterio, la masturbazione, la fornicazione, la pornografia, la prostituzione, lo stupro, gli atti omosessuali. “ (Compendio CCC, 492)

Quanta rozzezza nella sequenza, costruita per affastellamento, senza vero discernimento. Quanta finezza rileggiamo, invece, nei maggiori autori medievali. Pietro Lombardo ha, in proposito, una frase elegantissima:

“Melior est virginitas mentis quam carnis”. (Sententiae, D. 33)

Una delle cose belle, che la nostra epoca è capace di farci gustare, è il fatto di tornare alla grande tradizione, passando per le esperienze che emergono nel cuore della “società della dignità”, ben oltre le forme civili ed ecclesiali della società dell’onore. La società della eguaglianza, con tutti i suoi limiti, ci mostra gli abissi di ingiustizia della società della differenza e della preferenza. Il richiamo che la tradizione fa alla “vita casta” riguarda tutte gli stati di vita. C’è una castità celibataria e c’è una castità coniugale. Tra castità e continenza vi sono analogie e differenze, che non si possono mai ridurre né ad identità né ad opposizione. Questo vale per l’orientamento eterosessuale come per quello omosessuale. La pagine che Geraci scrive a proposito della “castità” sono esemplari e aprono possibilità di interpretazione nuova, motivata dalla dignità della eguaglianza, piuttosto che dalla discriminazione della differenza. (- continua)

1Mi pare che in questa direzione si muova C. Scordato, nel suo contributo Chiesa cattolica e “coniugio omosessuale”: realtà e possibilità, in A. Grillo – C. Scordato, Può una madre non benedire i propri figli? Unioni omoaffettive e fede cattolica, Cittadella, Assisi, 2021, pp. 57-84.

Testo tratto da :

Come se non – Blog di Andrea Grillo

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