lunedì, Novembre 18, 2024

Palestina… (don Paolo Zambaldi)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

In questi giorni terribili in cui notizie di nuove stragi, di aggressioni, di proclami di vendetta, di violenze di ogni tipo si susseguono a ritmo serrato… la mia mente ed il mio cuore non possono non ritornare alla terra palestinese, a ciò che ho letto, ai tanti incontri in Italia e all’estero, a ciò che ho visto e sperimentato in prima persona nei tanti viaggi/pellegrinaggi nel corso degli anni (il più significativo dei quali assieme a don Nandino Capovilla nel 2011) in quella “Terra Santa” che non riesce a trovare pace. 

E mi sento così impotente mentre osservo l’ennesima repressione, ascolto l’ennesima colpevolizzazione delle vittime che ignora volutamente (come solo la propaganda sa fare!) la realtà storica e adotta sempre doppi standard; mentre leggo le ennesime idiozie vomitate dai media occidentali schierati acriticamente con le azioni criminali dello stato di Israele… giornalisti che ci parlano di giovani israeliani che sono “come noi, che amano fare l’aperitivo” e giovinastri palestinesi che sognano solo l’occasione di farsi saltare in aria (cfr. le parole vergognose di M.T. Meli a La7); mentre constato l’ennesimo silenzio della comunità internazionale su un genocidio che si protrae da più di 70 anni. Non ne posso più di una narrazione ignorante ed ideologica che continua a sostenere l’assurda equazione: “critica e opposizione alle politiche dello Stato di Israele = antisemita”.

Un film già visto dopo l’11 settembre 2001 con l’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, con la guerra in Ucraina…

Alla fine io, come tante amiche ed amici, ci sentiamo un po’ come Handala, personaggio creato dall’artista palestinese Naji al-Ali. Handala è un bambino con capelli rasati a zero, piedi nudi e tante toppe sui vestiti… e soprattutto viene mostrato sempre di spalle e con le mani intrecciate dietro la schiena, come una presenza muta ma con una posizione molto netta. Handala mostrerà il suo viso solo quando la situazione cambierà e il suo popolo sarà finalmente libero dall’oppressione e dall’occupazione militare. 

Handala non mostra il suo volto… Ma tanti sono i volti che mi si affacciano alla memoria…

Mi torna in mente la testimonianza di Abuna Rahed (Padre Rahed), “vulcanico” parroco di Taybeh in Galilea, tra Nazareth e Cana, e della sua comunità: una presenza cristiana che va avanti costantemente dal I sec. d.C. e che ci parla di fede, di speranza e di resistenza. Con lui abbiamo parlato delle case e delle terre perdute/rubate al suo popolo, dell’occupazione disumana. Mi sembra di sentire ancora la sua voce roca e nasale: “Il sogno degli israeliani è svegliarsi un giorno, guardare oltre il muro, e scoprire che noi palestinesi (con le nostre famiglie, con le nostre case e con la nostra storia) siamo tutti scomparsi… come per magia! Esistere vuol dire già resistere!”. Lui invece ci ha mostrato una comunità cristiana e un popolo che non si rassegna a scomparire: ci ha parlato della radio, delle tante iniziative per giovani ed anziani, della scuola… e del birrificio (aperto nel 1994).

Penso agli avvocati volontari di Hebron che ci hanno spiegato cosa significa vivere nel proprio paese da stranieri, senza documenti e senza diritti. Questi uomini e donne che donano la loro vita e il loro lavoro a chi non ha voce ci hanno aperto gli occhi su cosa sia la “detenzione amministrativa”.

Ricordo il passaggio del check-point presso il grande muro, illegale, disumano e “mobile”, che divide Betlemme da Gerusalemme. Intendiamoci: non il passaggio agevole e furtivo dei pullman carichi di pellegrini che pregano devotamente il loro rosario ma si guardano bene dal farsi “provocare” dalla realtà che sta lì davanti al loro naso… la realtà quotidiana di migliaia di palestinesi costretti ad attendere davanti a un tornello,ore e ore ammassati come bestie, sperando di non perdere il lavoro, o di essere arrestati. Rivedo i volti e gli sguardi dei giovani miei coetanei che, alle 5.00 di mattina, si mettono pazientemente in fila per farsi filmare, contare, perquisire… Una ragazza, Samira, occhi neri e Hijab turchese, mi racconta che fermano anche le ambulanze e che tanti malati muoionio perchè ci vogliono ore… Anche sua cugina non ce l’ha fatta, come la bambina che portava in grembo, perchè non si trovava l’ufficiale israeliano di controllo e l’ambulanza è stata trattenuta per ore.

Ricordo l’incontro con le volontarie di Machsom Watch, con le loro pettorine colorate. Donne che svolgono la loro opera di “contro-controllo” dei check-points e dei militari. Sono in gran parte israeliane che hanno perso figli e parenti in questa guerra che dura da troppo tempo e non ne possono più di essere dalla parte dell’oppressore.

Vedo ancora il volto scavato e lo sguardo fiero di Uri, ex pilota dell’areonautica militare israeliana, che si è rifiutato di partecipare all’operazione “Piombo fuso” su Gaza nel 2008 e sta scontando 10 anni agli arresti. In Israele li chiamano Refusnik: militari che si rifiutano di combattere nei territori occupati o di ubbidire a ordini che vanno contro la loro coscienza e i diritti umani. Disobbedienti civili che, per restare umani e salvare vite, prendono la via del carcere.

Penso al coraggio dei ragazzi italiani di “Operazione colomba” al villaggio di Khan al-Ahmar con la sua “scuola delle gomme” (che oggi non esiste più!) costruita nel 2009 usando fango e copertoni d’auto usati. Una struttura che serviva più di 150 studenti (tra i 6 e i 15 anni) provenienti da cinque villaggi che altrimenti non avrebbero avuto accesso all’istruzione. Questi giovani ci hanno raccontato delle loro difficoltà e della violenza dei coloni dei villaggi vicini, di come dovevano scortare i piccoli a scuola, dei raid punitivi notturni e diurni da parte dei paramilitari delle colonie, degli ulivi sradicati, del bestiame ucciso…

Vedo ancora gli occhi lucidi di Abuna Manuel Musallam, per moltissimi anni parroco cattolico a Gaza. Sento le sue parole, pesanti come i macigni, che raccontano l’orrore di Gaza, quella che Ilan Pappe ha ben definito “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”.

Mi ricordo della distruzione della casa di Omar, il nostro silenzioso e sorridente autista, imposta dall’amministrazione israeliana. La scusa è sempre la stessa: costruzione abusiva. Mentre il bulldozer (che i palestinesi devono pagare di tasca loro per abbattere le loro stesse abitazioni!) distruggeva tutto, le donne della famiglia piangevano disperate, i bambini osservavano impauriti… Potevo “ammirare” all’orizzonte la sagoma di tanti insediamenti di coloni israeliani, tante piccole fortezze… tutte illegali per il diritto internazionale!

Forse per questo la “vile” propaganda di questi giorni mi rattrista tanto…

Perchè io c’ero…

Perchè anche io ho visto!

don Paolo Zambaldi

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1 commento

  1. Caro Don Paolo concordo totalmente con ciò che condividi. Io stesso in un viaggio fatto in Israele ho toccato con mano la tracotanza con cui vengono trattati non solo i palestinesi…Io stesso come religioso alla dogana mi sentii guardato e trattato come una bestia…e ne porto ancora la ferita. È vero che Hamas ha compiuto efferatezze indicibili ma è anche vero che dopo anni di umiliazioni i Palestinesi non sanno più come farsi valere…Il consiglio che io darei è quello di non aprire costantemente il solito canale televisivo e di non leggere sempre e solo il medesimo periodico…

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