domenica, Dicembre 22, 2024

Verso una spiritualità laica. Senza credenze, senza religioni, senza divinità (Valerio Gigante)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

41517 ROMA-ADISTA. Anche l’editore il Pozzo di Giacobbe, da qualche tempo, sta dando ampio spazio ad una serie di testi che affrontano il tema del momento nel dibattito teologico “di punta”; quello dell’orizzonte post-teista e postreligionario. Lo fa anche grazie alla collaborazione di Augusto Cavadi e di don Ferdinando Sudati, da anni sensibili a queste tematiche e divenuti particolarmente esperti di questo settore di ricerca. Proprio loro hanno curato la traduzione in italiano del testo appena pubblicato dalla casa editrice trapanese: l’autore è Maria (diminutivo di Mariano) Corbì, catalano, laureato in filosofia e teologia, tra i fondatori dell’“Istituto Cientifico Intedisciplinar” e del Centro de Estudio de las Tradiciones de Sabiduría (CETR) di Barcellona, che studia il fatto religioso nella società contemporanee. Come ricercatore – esperto di linguistica, epistemologia, sociologia, antropologia, storia delle religioni – ha approfondito lo studio delle conseguenze ideologiche e religiose delle trasformazioni generate dalla società industriale e post-industriale.

Verso una spiritualità laica. Senza credenze, senza religioni, senza divinità (il Pozzo di Giacobbe, 2023, pp. 315, 30€; il libro, senza spese di spedizione aggiuntive, può essere richiesto anche ad Adista, tel. 06/6868692; email: abbonamenti@ adista.it) è la sintesi di uno studio durato molti anni, spesso citato dai teologi e pensatori che si occupano di post-teismo e di spiritualità “oltre le religioni”. Partendo dalla linguistica e dall’antropologia, Corbì concepisce infatti la spiritualità come parte della natura umana stessa, anche se l’autore preferisce sostituire il termine “spiritualità” con “qualità umana”, perché “spiritualità” si riferisce a un’antropologia del corpo e dello spirito che non ci appartiene più.

Nell’introduzione sta il punto di partenza del lavoro: la società odierna ha conosciuto nell’ultimo secolo e mezzo mutazioni talmente profonde da non poter essere paragonate a nessun altro periodo della storia umana passando dal vivere facendo sempre le stesse cose e configurando il presente e il futuro con schemi del passato, tipici delle società preindustriali, al vivere dovendo continuamente mutare il modo di pensare, di sentire, di organizzare e di vivere degli individui e dei gruppi, che non possono rimanere ancorati a nessun tipo di credenza o norma del passato perché ciò impedirebbe loro di muoversi.

I valori nelle società preindustriali erano fondati su miti che davano coordinate assiologiche (cioè collegate a un sistema di valori) agli individui e ai gruppi. Il loro potere dei miti derivava dall’attività con cui la società arcaica sopravviveva: caccia, raccolta, coltivazione, ecc. Da questa attività principale deriva il mito. Per l’autore, infatti, «l’azione centrale grazie alla quale un popolo sopravvive si trasforma nella metafora centrale grazie alla quale si ordinano, si interpretano e si valutano tutte le realtà della vita». Il mito dà forma all’interpretazione e alla valutazione del mondo negli individui. I cambiamenti nel modo in cui i gruppi sopravvivono implicano quindi necessariamente cambiamenti nei miti e di conseguenza nell’interpretazione e nella valutazione della realtà.

Mito e ideologia

Nella prima industrializzazione, il mito (fatto di linguaggio simbolico) tipico delle società agrarie-autoritarie viene gradualmente sostituito da ideologie (costituite da linguaggio filosofico) più adatte alle conoscenze tecniche degli ingegneri che assumeranno la funzione di programmazione assiologica.

Con la seconda industrializzazione viene introdotto un nuovo sistema di produzione di beni e servizi basato sulla produzione di conoscenza e tecnologia. L’innovazione scientifica e tecnologica ha comportato trasformazioni nell’organizzazione del lavoro tali che le credenze religiose (che hanno origine mitologica), così come le ideologie scolari (che sono forme fisse di interpretazione), non possano essere mantenute, perché sono controproducenti per il progresso stesso della società. Di conseguenza, per Corbì, quella che stiamo vivendo oggi è l’era che segnerà la fine della religione così come per millenni l’abbiamo conosciuta.

Come è oggi possibile coltivare ciò che prima rientrava nelle forme religiose, ossia la dimensione assoluta dell’esistenza? Per l’autore la chiave sta nella capacità umana di parlare. Grazie a questa, l’uomo è in grado di adattarsi ai cambiamenti più rapidamente di altre specie, che richiedono modifiche genetiche che richiedono milioni di anni. I cambiamenti nelle modalità di sopravvivenza che la specie umana affronta sono accompagnati dai cambiamenti della cultura.

Se lo schema di lettura e valutazione della realtà che ha prodotto la grande famiglia dei nostri parenti – gli altri animali – «è rigidamente duale, ossia legata ai bisogni specifici e alla lettura e valutazione della realtà proprio a partire da essi, gli uomini non sono ingabbiati in questa necessità, perché dotati di linguaggio. Il linguaggio permette di distinguere ciò che è il significato della realtà per noi da ciò che essi sono in sé». «Questa esperienza assoluta della realtà non è una esperienza trascendente come lo sarebbe una realtà al di là di questo mondo. È l’esperienza di questo stesso mondo, a cui accediamo attraverso i nostri sensi, con la nostra mente e con le nostre azioni, ma visto, compreso e sentito come se esistesse e valesse con totale indipendenza da noi e da qualsiasi relazione con noi».

Ora, «le scienze non possono risolvere tutti i problemi umani perché i problemi più gravi che patiscono gli esseri umani sono assiologici, dato che sono politici, sociali, morali e le scienze, per la loro stessa natura, sono inadeguate a parlare esaustivamente di questi problemi. Le scienze sono costruzioni linguistiche in cui si è cercato di eliminare il più possibile gli elementi semantico-assiologici». D’altra parte, anche le religioni tradizionali «hanno la pretesa di descrivere la natura del reale. Pretendono di conoscere la natura umana, la natura della società, l’organizzazione sociale e familiare, pretendono di sapere quale deve essere il comportamento umano». Presumono «che i loro miti, i loro simboli e le loro narrazioni descrivano la natura stessa di ciò che è». Le nuove forme religiose devono offrire quindi non credenze, ma un nuovo modo di vedere la realtà, di accedere a un’altra dimensione della realtà, come fanno l’arte o la musica.

L’autore sostiene quindi l’urgenza di continuare a coltivare la “qualità umana” in un mondo in cui l’uomo è responsabile del suo destino e del destino della vita sul pianeta. Distaccandosi dalla preoccupazione per sé e i propri beni, per concentrarsi sul mondo e per de-centrarsi sull’Altro e sugli altri, facendo «l’esperienza della vita», nella sua profondità e pienezza. 

Valerio Gigante 23/06/2023

Tratto da: Adista Notizie n° 23 del 01/07/2023

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