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Rimetti a noi i nostri debiti (Giorgio Agamben)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

La preghiera per eccellenza – quella che Gesù stesso ci ha dettato («pregate così») – contiene un passo che il nostro tempo s’ingegna a ogni costo di contraddire e che sarà bene pertanto ricordare, proprio oggi che tutto sembra ridursi all’unica feroce legge a due facce: credito/debito. Dimitte nobis debita nostra… «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». L’originale greco è ancora più perentorio: aphes emin ta opheilemata emon, «lascia andare, rimuovi da noi i nostri debiti». Riflettendo nel 1941, in piena guerra mondiale, su queste parole, un grande giurista italiano, Francesco Carnelutti, osservava che, se è una verità del mondo fisico che non si può cancellare ciò che è avvenuto, lo stesso non può dirsi per il mondo morale, che si definisce appunto attraverso la possibilità di rimettere e perdonare.

Occorre innanzitutto sfatare il pregiudizio che in questione nel debito sia una legge genuinamente economica. Anche prescindendo dal problema di che cosa s’intenda quando si parla di una «legge» economica, una sommaria inchiesta genealogica mostra che l’origine del concetto di debito non è economica, ma giuridica e religiosa – due dimensioni che quanto più si retrocede verso la preistoria tanto più tendono a confondersi. Se, come ha mostrato Carl Schmitt, la nozione di Schuld, che in tedesco significa tanto debito che colpa, è alla base dell’edificio del diritto, non meno convincente è l’intuizione di un grande storico delle religioni, David Flüsser. Mentre un giorno stava riflettendo in una piazza di Atene sul significato della parola pistis, che è il termine che nei Vangeli significa «fede», vide davanti a sé la scritta a caratteri cubitali trapeza tes pisteos. Non gli ci volle molto a rendersi conto che si trovava di fronte all’insegna di una banca (Banco di credito) e nello stesso istante comprese che il significato della parola su cui rifletteva da anni aveva a che fare col credito – il credito di cui godiamo presso Dio e di cui Dio gode presso di noi, dal momento che crediamo in lui. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che «la fede è sostanza di cose sperate»: essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un credito esiste solo nella misura in cui la nostra fede riesce a dargli sostanza.

Il mondo in cui oggi viviamo si è appropriato di questo concetto giuridico e religioso e lo ha trasformato in un dispositivo letale e implacabile, di fronte al quale ogni esigenza umana deve inchinarsi. Questo dispositivo, in cui è stata catturata tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede, è il denaro, inteso come la forma stessa del credito/debito. La Banca – coi suoi grigi funzionari ed esperti – ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che l’emergenza vuole sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
La cosiddetta emergenza che stiamo attraversando – ma ciò che si chiama emergenza, questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo – è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario – e le banche che ne sono l’organo principale – funziona giocando sul credito – cioè sulla fede – degli uomini.

Se oggi un governo – in Italia come altrove – vuole davvero muoversi in una direzione diversa da quella che si cerca ovunque di imporre, è innanzitutto il dispositivo denaro/credito/debito che deve mettere risolutamente in questione come sistema di governo. Solo in questo modo una politica diventerà nuovamente possibile – una politica che non accetti di farsi strozzare dal falso dogma – pseudoreligioso e non economico – del debito universale e irrevocabile e restituisca agli uomini la memoria e la fede nelle parole che hanno tante volte recitato da bambini: «rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori».

28 settembre 2022
Giorgio Agamben

https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-rimetti-i-debiti

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