domenica, Dicembre 22, 2024

“La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento” intervista a Lucia Ceci

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Prof.ssa Lucia Ceci, Lei è autrice del libro La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento edito dal Mulino: che relazione è esistita, nel secolo appena trascorso, tra fede religiosa e violenza politica?

La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento, Lucia Ceci

Nel corso del Novecento i cattolici hanno legittimato l’esercizio della violenza come forma organizzata di lotta a fini politici in diverse aree del mondo. Dalla guerra civile spagnola alla resistenza antifascista, dai cristeros messicani ai preti guerriglieri, dalla rivolta ungherese del 1956 ai troubles, dalle pratiche genocidarie in Ruanda alle lotte antiabortiste negli Usa: schemi concettuali e dispositivi simbolici propri della tradizione cattolica hanno consentito a individui e gruppi non statali di ricorrere alla violenza per ottenere cambiamenti politici, nella convinzione che la scelta armata fosse non solo legittima, ma obbligatoria: per difendere istituzioni e valori ritenuti irrinunciabili o per promuovere trasformazioni radicali della vita pubblica.

Attivisti come Patrick Pearse e León Toral, rivoluzionari come Camilo Torres e Néstor Paz, alti prelati come Plá y Deniel e Mindszenty si sono immaginati difensori, nel contemporaneo, di una fede antica. Altri hanno usato il repertorio della tradizione cattolica per incitare all’azione armata in difesa di scelte politiche e forme di religiosità da porre come baluardo dinanzi all’avanzare dello stato moderno, percepito come una minaccia. La moralizzazione della violenza insurrezionale rappresenta un aspetto di grande rilievo in quanto i processi di legittimazione sono fondamentali quando si ricorre alla violenza senza l’autorizzazione dello stato o contro di esso: forme radicali di azione collettiva possono essere chiamate terrorismo o resistenza e, di qui, un soggetto essere considerato come un terrorista o un freedom fighter a seconda delle comunità – locali e globali – che lo definiscono in un modo o nell’altro.

La riattivazione di paradigmi identitari riconducibili alle religioni nello scenario aperto dalla fine del comunismo sovietico aveva ricevuto attenzione da parte di politologi e sociologi sin dagli anni Novanta. Già alla luce di quel tornante lo studioso statunitense Mark Juergensmeyer, nel volume Terror in the Mind of God, aveva tentato di spiegare in che modo, sul finire del XX secolo, la religione avesse fornito motivazioni, giustificazioni, organizzazione, visioni del mondo ad attività terroristiche ottenendo consenso anche su scala globale. Ma è stata soprattutto la crescente attenzione verso il fenomeno del terrorismo islamico a sollecitare antropologi, sociologi e, in misura minore, storici ad affrontare la questione delle eredità culturali di prospettive religiose di lungo periodo (martirio, sacrificio, crociate), sollevando alcuni interrogativi: è la religione che promuove la violenza o vanno considerati primariamente altri fattori (politici, economici, sociali)? Le tradizioni, gli immaginari, i linguaggi religiosi possono essere isolati da tali fattori?

Pur riconoscendo i limiti di generalizzazioni relative a una prospettiva religiosa che vanta, nella sua storia bimillenaria, pratiche, tradizioni e denominazioni tra loro distinte, fonti teologiche e rappresentazioni simboliche hanno indotto i cristiani a legittimare e a promuovere la violenza nella convinzione di essere fedeli agli insegnamenti e ai valori della loro fede religiosa. Secondo studioso statunitense Lloyd Steffen, la violenza sarebbe parte integrante dell’autocomprensione del cristianesimo: una religione che risale a un’esecuzione, la crocifissione, un atto di violenza politica contro un predicatore itinerante del I secolo e conduce, secondo l’ultimo libro delle Scritture, a una visione apocalittica della fine della storia. Una storia bimillenaria di violenza ispirata al cristianesimo avrebbe modellato immaginari e strutture profonde dell’identità dell’Occidente. Nel corso dei secoli l’uso della forza non solo è stato giustificato in relazione allo scontro tra cristiani contro credenti di altre religioni (ebrei, musulmani), nei conflitti tra cristiani, nell’azione missionaria che ha accompagnato il colonialismo europeo o nella sanzione religiosa dell’uso della forza da parte dello Stato (guerre, controllo sociale, punizioni), ma ha ricevuto elaborazioni teologiche e ha prodotto rappresentazioni simboliche che ne hanno rafforzato la durata nel lungo periodo.

Pur riconoscendo il peso di un passato così intimamente connesso alla storia dell’Occidente nel libro La fede armata ragiono in chiave storica. Lo studioso di storia non può limitarsi a rintracciare analogie linguistiche né attribuire prospettive e riferimenti religiosi a chi non vi ha esplicitamente fatto ricorso per legittimare azioni politiche. Non appare in altre parole legittimo attribuire motivazioni riconducibili alla tradizione cristiana se queste non sono richiamate o sono state rifiutate.

Le vicende al centro del volume sono state identificate, oltre che per la rilevanza della dimensione religiosa cattolica, alla luce di criteri geografici su scala globale, a partire dall’ipotesi che l’esame di casi relativi a contesti regionali tra loro spazialmente distanti possa meglio illuminare i movimenti di idee, narrazioni, persone e consentire di far emergere specificità e connessioni transnazionali più o meno sotterranee. Per verificare la persistenza di continuità, gli scarti, le circolazioni, il libro si concentra su alcuni casi di studio, individuati considerando la centralità al loro interno del «fattore cattolico». È un criterio che implica almeno due precisazioni. Nei gruppi e negli individui che scelgono la lotta armata la componente religiosa è strettamente intrecciata ad altre motivazioni (politiche, sociali, culturali) e difficilmente può essere isolata come chiave esplicativa univoca. Assumerla come oggetto di studio non significa che io ignori la rilevanza degli altri aspetti. La seconda precisazione riguarda la difficoltà di isolare il «fattore cattolico» in un’epoca, quella contemporanea, segnata, oltre che dalla tradizionale politicizzazione della religione, dall’assunzione di linguaggi religiosi a opera della politica, dalla compenetrazione e contaminazione di paradigmi e registri.

La guerra civile spagnola è stata qualificata dai suoi stessi protagonisti come una Cruzada: che ruolo vi hanno avuto la Chiesa e i cattolici?
All’indomani dell’alzamiento, la sacralizzazione dell’insurrezione contro il legittimo governo repubblicano fu proposta dai generali ribelli. Emilio Mola dichiarò in una trasmissione radiofonica dell’agosto 1936 che solo la croce, una croce con grandi braccia, segno di protezione per tutti, simbolo della religione e della fede, avrebbe salvato la Spagna dalla barbarie del Fronte popolare. Il 16 agosto il generale Miguel Cabanellas in una lettera alla Santa Sede definì il movimento dei nazionalisti una crociata religiosa per salvare la patria dalla tirannia di Mosca. Da quel momento in poi innumerevoli esponenti dell’esercito e del clero presero a competere per proclamare la crociata riattivando una ideologia di lungo periodo. Più tardi il sintagma comparve negli atti ufficiali della gerarchia spagnola. La sacralizzazione della violenza contro i «rossi» divenne un elemento caratterizzante della mobilitazione dei ribelli e informò pratiche devozionali. Ambigua risultò la posizione di Roma. Nel discorso pubblico i pontefici non adottarono la trascrizione politico-ideologica dell’insurrezione in termini di guerra santa. Accettarono però indirettamente la sua ampia circolazione. Nessuna obiezione il Sant’Uffizio sollevò nei riguardi di Aniceto de Castro Albarrán, divulgatore infaticabile della legittimazione teologica dell’insurrezione franchista, la cui opera Guerra Santa poté anzi contare sul prologo del primate della Chiesa di Spagna, l’arcivescovo di Toledo Isidro Gomá. La documentazione archivistica vaticana ha consentito di chiarire che il processo di elaborazione maturato in Vaticano risentiva delle notizie dettagliate su massacri di ecclesiastici, violenze, atti di iconoclastia. Le informazioni arrivavano a Roma attraverso il cardinale primate della Chiesa spagnola, Isidro Gomá, e altri ecclesiastici scampati alle violenze anticlericali, già confezionate in una cornice interpretativa che contrapponeva il rifiorire della vita religiosa nelle retrovie del campo nazionale agli atti di barbarie di comunisti armati da Mosca con il beneplacito di Madrid. Ma le uccisioni sistematiche del personale ecclesiastico, gli atti furibondi di iconoclastia non erano un’invenzione: l’estate del 1936 per gli ecclesiastici che si trovavano nelle zone del Paese in cui non c’era stata o non aveva trionfato la sollevazione si era trasformata in un’orgia di sangue, il più grande massacro di ecclesiastici della storia contemporanea. Nessun’altra istituzione o gruppo aveva subito una violenza tanto rapida e cruenta. La mancata dissociazione delle autorità repubblicane dagli atti più brutali compiuti contro uomini, donne e beni della Chiesa spinse Pio XI, dopo un periodo di incertezze ed esitazioni, verso una sterzata decisa a favore degli insorti. Dai pulpiti e dalle parrocchie si offrì una legittimazione della ribellione che attingeva, sul piano teologico, ad elementi discorsivi messi a punto negli anni della Repubblica. La riflessione più larga e popolare sulle circostanze che rendevano ammissibile, a livello dottrinale, il diritto alla rivolta e il ricorso alla lotta armata contro un governo in carica era stata svolta nei primi anni Trenta da Aniceto de Castro Albarrán, canonico magistral della cattedrale di Salamanca, il cui volume pubblicato nel 1934 con il titolo El derecho a la rebeldía venne rieditato in edizione ampliata nel 1941 con il titolo El derecho al Alzamiento.

Roma, che non denunciò i bombardamenti delle città né la legittimazione teologica del golpe, pose sotto l’esame, attraverso il Sant’Uffizio Alfred Mendizábal, l’intellettuale spagnolo rifugiato in Francia e amico di Jacques Maritain, per avere sostenuto la legittimità dei cattolici di schierarsi, in Spagna, su fronti opposti.

Quale ruolo ha svolto, nella guerra fredda, la matrice religiosa?
Nel libro prendo in esame, in particolare, la rivolta ungherese del 1956, quando la repressione sovietica contro la rivolta ungherese mostrò al mondo la violenza brutale del dominio dell’Urss, con una narrazione che sarebbe rimasta centrale nella memoria collettiva dei decenni successivi. Cattolici di diversi Paesi risposero attivamente all’appello di Pio XII alla «crociata di preghiere» per il popolo magiaro, cui si riconobbe il destino provvidenziale di popolo eletto per difendere la civiltà cristiana contro gli anticristi dell’Est. In Italia, in Francia, in Spagna le iniziative assunsero i caratteri di mobilitazioni di massa in cui, pur con diverse articolazioni, le vicende ungheresi furono trascritte nei termini di nazionalismo, martirio e crociata, in una visione che marginalizzava, sino ad espungerla, la questione della violenza inferta. Più che la morte in armi al popolo magiaro fu associata infatti l’immagine sacrificale del martirio in una visione che marginalizzava, sino ad espungerla, la questione della violenza inferta. Nella prima fase della rivolta i reportage giornalistici si concentrarono sulle immagini di giovanissimi manifestanti, ragazzi e ragazze ungheresi, che sfilavano nelle strade di Budapest imbracciando mitragliatrici PPSh-41 o vecchie carabine. Erano i «freedom fighters», combattenti in armi per la libertà contro l’oppressore statale e straniero, che intervistati dai giornalisti si richiamavano alle parole chiave dei moti del 1848: libertà, indipendenza, nazione. La guerriglia urbana aveva coinvolto tra i dieci e i quindicimila resistenti, tra civili e militari, uomini e donne.

Nel radiomessaggio natalizio del 23 dicembre 1956, Pio XII si riferì all’invasione sovietica dell’Ungheria non solo per ribadire la dottrina cattolica della guerra giusta e condannare l’obiezione di coscienza ma per parlare di «crociata». Lasciando intendere che la decisione poteva rientrare nelle prerogative papali, Pacelli affermò che aveva evitato di «chiamare la Cristianità a una crociata» contro l’Urss, ma richiedeva «piena comprensione del fatto che dove la religione è un vivo retaggio degli antenati, gli uomini concepiscano la lotta, che viene loro dal nemico ingiustamente imposta, anche come una crociata». Apparve così chiara la linea assunta dal papa: Roma non aveva bandito una guerra santa contro l’Urss, pur avendone la facoltà, ma legittimava la rivolta antisovietica valorizzando la dimensione soggettiva della spinta religiosa da parte degli insorti. Alla fine del 1956 questo clima venne evocato dal cardinal Tisserant nella solenne cornice degli auguri del collegio cardinalizio, attraverso il richiamo all’assedio di Vienna da parte dell’Impero ottomano, potenza «mossa da un’ideologia conquistatrice, intesa a portare l’ultimo colpo ad un Impero, che non era soltanto germanico, ma Sacro e Romano». Alludendo al comunismo come nuovo Islam che minacciava l’Europa con la sua carica anticristiana e la sua potenza, il decano del Sacro Collegio concluse che, se fosse arrivato il peggio, non sarebbe mancata «la vigorosa difesa» capeggiata dal papa. In Italia, in Francia, in Spagna le iniziative pro Ungheria assunsero talora le dimensioni di dimensioni di massa. Solo due esempi. Alla solenne processione penitenziale, promossa il 9 novembre a Milano dall’arcivescovo Giovanni Battista Montini, in riparazione della repressione sovietica, parteciparono 100 mila persone. A prevalere fu il contenuto anticomunista, anche in chiave interna contro il Pci. Diverse manifestazioni promosse dall’Azione cattolica sfociarono in tafferugli e assalti alle sedi del Pci e contro il partito di Togliatti si invocarono misure eccezionali sino alla messa al bando, come fece, tra gli altri, il presidente dell’Azione cattolica Luigi Gedda. Altrettanto insistita fu la prospettiva nazional cattolica incentrata sul trinomio patria, religione, libertà. Rara risultò la sacralizzazione diretta dell’esercizio della violenza. Si celebrò piuttosto, indirettamente, il martire in armi, giovane David contro Golia, che rivisitava, in chiave cattolica, il «freedom fighter» ungherese. Nella Spagna franchista si celebrarono, ad esempio nella cattedrale di Murcia, funerali solenni per i martiri ungheresi, ponendo al centro della navata centrale un tumulo ricoperto dalla bandiera magiara.

In che modo, nel secolo appena trascorso, in America Latina la fede ha alimentato i propositi rivoluzionari?
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta la guerriglia fu considerata la forma principale di lotta rivoluzionaria nella scena politica latinoamericana. Propagandata con convinzione da ideologi della sinistra estrema critici della politica sovietica, all’indomani della rivoluzione cubana la strategia della guerriglia attirò gruppi di giovani entusiasti in imprese destinate al fallimento, che lasciarono sul campo i corpi di personaggi belli e carismatici: Che Guevara in Bolivia, padre Camilo Torres in Colombia. Questi esempi ispirarono in America Latina sacerdoti e intellettuali cattolici a cui occhi la spinta al cambiamento era resa più urgente dall’«aggiornamento» aperto dal Concilio Vaticano II. Alla giustificazione teorica della legittimità morale, da un punto di vista cristiano, della lotta armata per abbattere la «violenza strutturale» del sistema concorsero teologi, vescovi e laici. Nel quadro di un più generale interesse verso le rivolte del Terzo Mondo, il cattolicesimo latinoamericano divenne fonte di ispirazione per i settori più radicali delle Chiese del Primo mondo, ridimensionando la visione di un Occidente centro di propulsione di idee, modelli politici, prospettive ecclesiali, forme di sociabilità innovative.

L’esempio più significativo è quello del sacerdote e sociologo colombiano Camilo Torres che in uno degli ultimi suoi interventi pubblici prima di abbracciare la lotta armata nell’Esercito di liberazione nazionale sostenne che “La Rivoluzione è il modo per ottenere un governo che dia da mangiare all’affamato, che dia da vestire all’ignudo, che insegni a chi non sa, che compia le opere di carità, di amore del prossimo, non soltanto in forma occasionale e transitoria, non soltanto nei confronti di pochi, bensì per la maggioranza del nostro prossimo. Per questo la Rivoluzione non soltanto è consentita ma addirittura obbligatoria per i cristiani che vedono in essa l’unica maniera efficace ed ampia di realizzare”. Torres venne ucciso nel corso della sua prima azione militare il 15 febbraio 1966, mentre prendeva parte a un’imboscata, poi fallita, contro una pattuglia dell’esercito nazionale tra le montagne di Santander, in un luogo denominato Patio de Cemento. Era armato e fu colpito mentre avanzava facendo fuoco per recuperare una carabina M-1.

Con la sua morte Camilo Torres divenne, almeno per alcuni anni, il Che Guevara dei cattolici. Come per Che Guevara, nella narrazione della figura di Camilo Torres giocarono un ruolo importante le canzoni. Nel 1972 uscì Il proclama di Camilo Torres, del cantautore italiano Fausto Amodei, già molto popolare con il pezzo Per i morti di Reggio Emilia (1960), immancabile nelle manifestazioni studentesche ed operaie. Fu però in America Latina che la vicenda di Camilo Torres ebbe maggiore popolarità. Nel 1967 il chitarrista e cantautore uruguayano Daniel Viglietti compose la canzone Cruz de luz, resa popolare da Victor Jara, il poliedrico artista iscritto, come Pablo Neruda, nel Partito comunista cileno, e protagonista della Nueva Canción Chilena, torturato e poi ucciso nello Stadio di Santiago del Cile all’indomani del golpe del generale Pinochet. In Cruz de luz l’immagine romantica dell’eroe colpito mentre torna indietro a raccogliere il suo fucile, un po’ straniante a dire il vero se riferita a un sacerdote cattolico, si arricchisce con l’identificazione tra Camilo e Gesù, entrambi uccisi, entrambi chiamati banditi («Lo clavaron con balas en una cruz, lo llamaron bandido como a Jesús»). C’è poi il topos classico dell’eroe che muore e rivive nell’azione del popolo («Cien mil Camilos prontos a combatir»). Ma forse l’immagine destinata risuonare maggiormente nei movimenti e nelle riflessioni degli anni successivi era quella di Dio che, mentre le pallottole colpivano Camilo, gridava «Rivoluzione!» («Era Dios que gritaba: ¡Revolución!»).

Camilo Torres entrò anche nell’album Testimonios rebeldes (1972) del cantautore messicano José de Molina, nella ballata Cura y guerrillero, in cui è descritto come un sacerdote proletario «senza aureola, senza rosario, senza santuario», che ha lasciato la tonaca e indossato la divisa verde oliva. L’accostamento tra fede e azione armata è proposto attraverso immagini molto concrete. Oltre a indossare la divisa militare, nella ballata di de Molina Torres «officia con una mitragliatrice», dice le sue preghiere «con il dito sul grilletto», «prega affinché gli uomini facciano la rivoluzione».

Nel libro Lei analizza anche la stagione italiana degli “anni di piombo”: alle origini delle Br vi fu una componente cattolica?
La presenza di militanti cattolici nei luoghi in cui si iniziò a discutere di lotta armata ha spinto a considerare il ruolo che all’interno delle Brigate rosse avrebbero avuto la formazione religiosa e prospettive proprie della cultura cattolica. Fu, tra i primi, Giorgio Bocca a segnalare queste contiguità nel 1978, sostenendo che all’interno dei gruppi terroristici le differenze di provenienza sarebbero state meno nette di quanto si potesse immaginare. Una concezione totalizzante della vita e della società avrebbe consentito ad alcuni di passare dalla fede in Dio a quella nella rivoluzione, conservando il bisogno di chiesa, di dogma, di solidarismo. Una tala consonanza, tuttavia, resta puramente astratta se non viene tradotta in una sintesi politica. A differenza di Camilo Torres, dei teologi della liberazione o dei cristiani per il socialismo, i brigatisti tentarono di elaborare una sintesi dei due sistemi o abbracciano il marxismo rivoluzionario gettandosi alle spalle la cultura cattolica?

La presenza di personalità come Corrado Corghi, don Andrea Gallo e di alcuni giovani militanti cattolici nei luoghi e in specifici incontri in cui si iniziò a discutere di lotta armata in Italia ha portato forse a sopravvalutare il peso che all’interno delle Br avrebbero avuto una presunta formazione religiosa e prospettive proprie della cultura cattolica. A suffragare tali analisi verrebbero in aiuto alcuni percorsi biografici: molti brigatisti avevano frequentato la parrocchia o associazioni cattoliche, spesso provenivano da “buone famiglie cattoliche”. Espressioni queste che ricorrono soprattutto in relazione alla trentina Mara Cagol, ma anche per Roberto Ognibene, Nadia Mantovani, Annamaria Ludman, Giorgio Semeria. Medaglioni biografici ed etichette di “bravo cattolico”, “brava ragazza cattolica” sono stati costruiti a prescindere da riferimenti documentari da cui si potesse far discendere la motivazione religiosa del ricorso all’azione armata, al massimo attraverso una memorialistica ipertrofica e autoreferenziale.

È noto che la ricerca storica che abbia per oggetto un’organizzazione terroristica incontra difficoltà oggettive derivanti dalla clandestinità, dall’isolamento, dalla necessità dei militanti di prendere precauzioni. Tanto più se l’intento è quello di indagare le motivazioni, la soggettività, le tensioni derivanti dall’atto di uccidere. Non a caso tali aspetti restano ancora remoti e indicibili in relazione ad alcune formazioni della Resistenza italiana. Sul piano metodologico, tuttavia, non si può assumere quale principale criterio interpretativo il fatto che alcuni brigatisti avessero frequentato la parrocchia e insegnato il catechismo. Non può sfuggire che quanti, tra i venti e i trent’anni di età, all’inizio degli anni Settanta scelsero la via della lotta armata in Italia si erano formati tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta: una fase storica in cui frequentare la parrocchia, partecipare ai sacramenti costituivano pratiche ed esperienze appartenenti a una larghissima fetta della popolazione della penisola. L’arrivo in città, la modernizzazione, sempre più rapida, della società italiana, l’ingresso all’università si tradussero per molti giovani in un allontanamento, se non in un’aperta presa di distanza da quelle esperienze e da quelle tradizioni. Di certo intrecci e contaminazioni tra movimenti di protesta e dissenso cattolico si realizzarono nella contestazione del ’68, la cui tendenza a varcare la soglia della legalità in nome della rivoluzione aveva trovato terreno fertile non solo nel massimalismo delle formazioni politiche minoritarie della nuova sinistra, ma negli slogan dei cortei («mai più senza fucile», «violenza contro violenza», «fascio impara, P38 spara»), nelle canzoni partigiane riscoperte dai giovani nostalgici della resistenza, nei miti internazionali di riferimento. La questione della continuità/discontinuità del ’68 con il terrorismo rosso è stata oggetto di vaste e spesso polemiche discussioni. Se l’ispirazione ideale del «Sessantotto-rivoluzione del costume» era distante dal delirio ideologico dei brigatisti rossi, è altrettanto vero che la contestazione aveva generato simboli violenti ed esaltato la lotta armata lasciando sul terreno «semi» coltivati dagli extra parlamentari e poi raccolti dai terroristi, anche in ragione della crisi del sistema politico e dell’esplosione della strategia della tensione. In questo quadro e in un senso indiretto si possono considerare l’inserimento dei cattolici nella contestazione e i loro miti (soprattutto latinoamericani) un apporto alla elaborazione di un humus fertile su cui si si sviluppò il terrorismo.

Risultando difficilmente percorribile l’indagine sulle motivazioni individuali dei terroristi che escluda l’epica e l’apologetica dell’autobiografia postuma, non restano che due strade: prendere sul serio le dichiarazioni pubbliche delle Br, rintracciare negli interventi di militanti cattolici una legittimazione del terrorismo in termini riconducibili tradizione religiosa. Quali fossero alcuni tra le più influenti riflessioni in tal senso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta lo si è visto nelle pagine precedenti: dalle teologie della rivoluzione e della liberazione alla celebrazione di cristiani in armi come Camilo Torres, l’idea che fosse ammissibile, se non doveroso, da un punto di vista cristiano, ricorrere alla violenza rivoluzionaria contro la violenza strutturale aveva conosciuto un’ampia tematizzazione e circolazione. Tuttavia, come avrebbe detto Giorgio Semeria, tra i fondatori delle Br e militante di Gioventù studentesca presente a Chiavari, «un conto era la discussione sulla violenza giusta un conto programmare un assassinio». Se la spinta massimalista verso la trasformazione rivoluzionaria del sistema si apprese anche dall’utopia cattolica, per il tuffo nella clandestinità e nella lotta armata si attinse al lessico rivoltoso estrapolato da dizionari politici in disuso. Un lessico in cui in cui non c’era più traccia di tradizioni cattoliche e in cui il comunismo si esprimeva con una grammatica semplificata, evocativa di un alfabeto di irriducibilità antagonistica, che era stato appreso in modo tanto assertivo quanto incerto.

Che ruolo ha avuto la Chiesa nel genocidio ruandese?
In un secolo che ha conosciuto guerre e genocidi, le vicende del Ruanda risaltano non solo per il carattere estremo delle violenze commesse, ma per il ruolo giocato al loro interno dal fattore etnico, legato più di altri aspetti all’antagonismo religioso. All’epoca della guerra civile, il Ruanda era uno dei Paesi dell’Africa in cui più estesa risultava l’adesione alla religione cristiana. Nell’ultimo censimento prima del conflitto, raccolto nel 1991, il 90% della popolazione si era dichiarato appartenente alla Chiesa cattolica e a un numero ridotto di chiese protestanti. Nei mesi del genocidio non solo gli autori delle violenze più efferate erano battezzati, ma gli edifici ecclesiastici divennero i luoghi principali dei massacri. Gli organizzatori degli eccidi fecero leva sulla convinzione che i santuari fossero luoghi di riparo dalle violenze per attirare nei locali delle chiese decine di migliaia di tutsi con false promesse di protezione; soldati e altre milizie armate hutu hanno quindi massacrato le persone che nelle chiese si rifugiavano sparando, lanciando granate sino a finire i sopravvissuti in modo particolarmente crudele: fatti a pezzi a colpi di machete, ganci da potatura, affogati.

Nella parrocchia cattolica di Cyahinda, nell’estremo Sud del Ruanda, in quattro giorni furono massacrati più tra i diecimila e i quindicimila tutsi, incoraggiati dal borgomastro ad entrare in chiesa per sfuggire alle violenze. Diciassette mila corpi furono esumati da una serie di latrine vicino alla all’edificio principale, solo una delle fosse comuni del sito. L’ultima a morire nell’attacco alla parrocchia fu una giovane studentessa gettata viva in una fossa profonda, piena di cadaveri. Alcuni bambini le diedero acqua da bere, ma quando il borgomastro ne fu informato ordinò di coprire la fossa. Nei locali del Seminario di St. Leon Minor e del Collegio St. Joseph, a Kabgayi, furono uccisi tremila quattrocento tutsi. Nel massacro svolse un ruolo chiave Padre Emmanuel Rukundo, cappellano militare dell’esercito ruandese e rettore del Seminario, tra i primi a utilizzare la tattica di attirare i fedeli tutsi nei luoghi sacri con la promessa di protezione.

Secondo gli osservatori internazionali morirono più ruandesi nelle chiese e nelle parrocchie che in qualsiasi altro luogo. Per questa ragione, dopo il genocidio del 1994, attivisti dei diritti umani, giornalisti e anche alcuni rappresentanti delle chiese hanno denunciato le chiese ruandesi per la loro responsabilità nelle violenze più atroci. Si potrebbe ipotizzare che la religione sia stata funzionale all’intolleranza e al fanatismo che hanno sorretto le violenze commesse. Il fatto che alcuni sacerdoti e laici si siano opposti ai massacri e abbiano messo a rischio la propria vita per nascondere tutsi nelle loro case, dimostra tuttavia che l’opposizione delle chiese era possibile e avrebbe potuto contribuire a ridurre le dimensioni scioccanti del genocidio. Un sacerdote tutsi, che era stato nascosto nella parrocchia dal suo confratello hutu a Butare, ha raccontato che «La gente veniva e chiedeva al mio confratello sacerdote di riaprire la chiesa e celebrare la messa. La gente veniva a messa ogni giorno per pregare, poi usciva per uccidere».

Le complicità e i silenzi dei cattolici nel genocidio sono state riconosciute anche da Giovanni Paolo II. La lettura di fondo, tuttavia, è stata che gli errori riguardavano non la Chiesa cattolica come istituzione, ma i suoi membri. Sono state spesso proposte letture assolutorie che non hanno fatto i conti con le responsabilità delle istituzioni cattoliche nel rafforzare le identità e le divisioni etniche, sostenendo la loro trasformazione in realtà politiche e contribuendo a legittimare prima le autorità coloniali belghe poi i regimi dittatoriali. Sul piano della pietà e della partecipazione ai sacramenti i ruandesi si erano dimostrati credenti devoti. Pur mantenendo alcune pratiche religiose indigene, avevano accolto molti dei principi della fede cristiana. La maggior parte delle persone che in Ruanda hanno ucciso si professavano cattoliche e molti degli assassini credevano che le loro azioni avessero la benedizione della Chiesa ufficiale. Le condanne delle violenze etniche, pronunciate sotto la pressione della comunità internazionale e dell’opinione pubblica mondiale, furono generiche e limitate. Immediati, viceversa, gli inviti a supportare il nuovo regime che stava organizzando i massacri. La resistenza che alcuni cristiani, ispirati dalla propria fede, opposero all’autoritarismo e alla violenza etnica, lungi dall’assolvere l’istituzione cattolica, dimostra che la Chiesa avrebbe potuto opporsi al genocidio.

Lucia Ceci insegna Storia contemporanea nell’Università di Roma Tor Vergata. Tra i suoi libri più recenti: Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia (Laterza, 2010), L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini (Laterza, 2019, trad. in inglese).

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