Nel Concilio Vaticano II s’era introdotto il tema della Chiesa dei poveri. Ne aveva parlato, verso la fine del primo Periodo, il card. Lercaro, dicendo che il povero è una delle presenze di Gesù Cristo nella Chiesa dopo l’Eucarestia e la gerarchia. Pare che Paolo VI temesse che il tema della Chiesa dei poveri finisse nella politica, allora imperniata sulla guerra fredda tra il mondo occidentale e quello sovietico, e pensasse di trattarlo lui in un’Enciclica, che fu poi la Populorum progressio del 1967.
Verso la fine del Concilio, il gruppo della Chiesa dei poveri (detto “del Collegio belga”, perché a quel Collegio romano faceva capo) decise di ritrovarsi perché i vescovi cominciassero loro a impegnarsi e a darne l’esempio. La voce dell’incontro si sparse da amico ad amico; io che facevo parte di un gruppo di vescovi alla spiritualità di fratel Carlo De Foucauld (eravamo una ventina, di quattro Continenti), venni avvisato da un amico e andai quel pomeriggio (16 novembre) alla Basilica sopra le Catacombe di S. Domitilla, e mi trovai con una quarantina di vescovi per una Concelebrazione presieduta dal vescovo belga Mons. Himmer, di Tournai.
Fu lui a fare un’omelia sul tema e a presentare una serie di impegni (scritti un po’ secondo lo stile del tempo), che i vescovi erano invitati a sottoscrivere e ad attuare, dal vivere secondo lo stile ordinario della propria popolazione (per quanto riguarda l’abitazione, il nutrimento, i mezzi di locomozione), alla rinuncia ad ogni forma di ricchezza (abiti, insegne, possedimenti, ma anche titoli personali e privilegi), dal dare “quanto è necessario del nostro tempo, della riflessione, del nostro cuore, dei nostri mezzi … al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi dei lavoratori, degli economicamente deboli e dei sottosviluppati”.
Ma v’era anche l’impegno a “trasformare le opere di beneficenza in opere sociali fondate sulla carità e la giustizia”, a far sì che “si mettano in attuazione le leggi, le strutture e le istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo organizzato e totale di ogni uomo e perciò stesso alla realizzazione di un ordine nuovo, collaborando con gli episcopati delle nazioni povere per far si che le strutture economiche e culturali non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco, ma permettano alle masse povere di uscire dalla loro miseria”, con un ultimo appello alla comunione, con i sacerdoti, i religiosi e laici “per essere sempre più degli animatori secondo lo spirito piuttosto che dei capi secondo il mondo”.
I vescovi presenti sottoscrissero e si impegnarono a farlo fare da Confratelli (si arrivò a oltre cinquecento firme), cosicché si poté consegnare il “Patto delle Catacombe” a papa Paolo VI tramite il Card. Lercaro (che fra l’altro, all’insaputa dei firmatari del “Patto” portò al Papa anche suggerimenti per l’Enciclica futura, raccolti da lui stesso con gruppetti di vescovi segretamente incaricati di questo studio).
Il Patto rimase come suggerimento ai vescovi sottoscrittori, essendo mancata ogni ulteriore organizzazione, col timore di ambiguità dopo le tensioni, anche interne alla Chiesa, del 1968/69.
Il Patto è stato richiamato qualche anno fa in Germania e a me, ormai ultimo superstite dei presenti alle Catacombe di Domitilla, fu chiesto l’elenco di quelle presenze, che fu ritrovato nell’archivio di mons. Himmer, ormai defunto. Fu rievocato quel Patto in un grande Convegno a Francoforte, nel 50° anniversario dell’inizio del Concilio. Si chiese di rilanciarlo, cosa che personalmente feci con una lettera su “Settimana” indirizzata a tutti i vescovi italiani.
Ma ora, a cinquant’anni da quella giornata, vi sarà un grande convegno a Roma, auspicando anche che il S. Padre possa, se non sponsorizzarlo, certo benedirlo.
(Mons. Luigi Bettazzi, Mosaico di pace, ottobre 2015)