Perché la fede non può essere disincarnata…
Che cos’è la fede? Credere in un Dio che non si vede e che sta nell’”alto dei cieli”? Andare a messa, pregare, recitare il rosario, andare in pellegrinaggio? Fare l’elemosina? Sentirsi migliori degli altri? Sperare in una protezione dal male, dal fallimento, dalla paura, dalla malattia? Stare nella Chiesa intesa come strumento per le proprie esigenze spiritualiste e talvolta materiali?
Spesso ciò che appare è questo. Non mi meraviglia. Non poteva che essere così dopo secoli di predicazione in cui si poneva al centro la paura dell’inferno e si riducevano le varie celebrazioni (messa compresa), a un pegno da pagare per evitarlo; non poteva che essere così, dopo aver fatto distogliere gli occhi dal mondo, presentato sempre come luogo di perdizione, stretto tra un “noi giusti” e un “loro peccatori”. Un mondo diventato qualcosa da non coinvolgere con la purezza del discorso religioso. Come se il vivere quotidiano, con i suoi dolori, le sue gioie, le sue violenze, i suoi amori, le sue contraddizioni fosse qualcosa di impuro, qualcosa da tener fuori dalla porta della Chiesa.
Così siamo giunti a una “fede” completamente disincarnata. Così siamo arrivati a pensare che ciò che succede fuori “è un’altra cosa” da ciò che si dice “dentro”. Ecco allora che la povertà improvvisamente è diventata solo “di spirito”, la condivisione si è ridotta a “elemosine”, la preghiera a “una consolazione intimista” o a una richiesta di favori personali, la comunione e la messa a un obbligo, la Parola a un’”utopia” bella ma impraticabile.
E mentre nei secoli scorsi imperversava l’inferno, ora esso è stato sì estromesso dai pulpiti ma per lasciare il posto a una sorta di “edonismo religioso” astorico e atemporale: il bello dei sentimenti, lo stare in pace con se stessi, l’uscire contenti di chiesa perché “Gesù ti ama”. La celebrazione un momento di relax, dopo lo stress settimanale. Il classico cartello “non disturbare” appeso alle coscienze. Ancora una volta dunque il mondo è posto fuori dalla porta della Chiesa. Uno spiritualismo alla rovescia.
Diceva Dietrich Bonhoeffer: “É impossibile essere veramente cristiani fuori della realtà del mondo, e non si dà nessuna autentica esistenza nel mondo fuori della realtà di Gesù Cristo. Per il cristiano non esiste nessun rifugio fuori dal mondo, né in concreto né nell’interiorità spirituale. Qualsiasi tentativo di ritirarsi dal mondo sarà presto o tardi pagato con qualche colpevole cedimento al mondo”.
L’esempio del Maestro ci spinge in questa direzione. Ci invita a passare per la strada stretta della coscienza che si pone criticamente davanti al mondo, non lo subisce, non lo vive da alienata, ma lo comprende e lo ama, lo trasforma dal suo interno come fa il lievito con la pasta; ci invita a passare per la cruna dell’ago, a lasciare che le nostre ricchezze (soldi, “roba”, cultura, tempo, passione) siano condivise, ci invita a “essere spina nel fianco” di una società che si crogiola nei propri poteri, che sfrutta, umilia, violenta la terra e l’uomo, specialmente il povero che non sa o non può difendersi.
Gesù questo è stato! Un profeta rivoluzionario che ha capovolto tutti gli schemi del “buon senso” e della mediocrità. Un uomo immerso nel suo tempo, del quale vedeva gli errori e le contraddizioni indicando una strada per uscirne, un ebreo critico verso la sua casta sacerdotale che riduceva l’amore immenso di Dio all’osservanza rigida delle regole, un uomo del popolo che conosceva le sofferenze dei poveri e pure il cuore dei ricchi. Lui era l’Incarnato, il Dio con noi. Era la spada della giustizia nel fianco di un mondo ingiusto. Per questo è stato ucciso, per essere stato testimone di verità care ad alcuni, ma scomode per altri. Se fosse stato un semplice e asettico predicatore di un Dio nell’alto dei cieli, sarebbe morto nel suo letto.
La fede infatti non è consolazione per le nostre pene piccoloborghesi, ma è lotta tenace per la giustizia, testimonianza di amore concreto verso l’altro, accettazione della logica evangelica di un amore “esagerato” che dà all’ultimo come al primo.
don Paolo Zambaldi