venerdì, Marzo 29, 2024

“(Ver)gogna mediatica, sistema malato” (Sarah Franzosini)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

La spettacolarizzazione dell’informazione: dal caso Knox al giallo Neumair. L’avvocato penalista Nicola Canestrini: “L’opinione pubblica vuole lo scandalo”.

salto.bz: Avvocato Canestrini, il caso di Peter Neumair e Laura Perselli, i coniugi scomparsi dal 4 gennaio scorso, riempie le pagine di testate locali e nazionali. Nel registro degli indagati è stato iscritto il maggiore dei figli della coppia, il trentenne Benno Neumair, per omicidio e occultamento di cadavere e la macchina del processo mediatico si è già messa in moto. È il gran spettacolo della cronaca nera?

Nicola Canestrini: Della vicenda specifica non parlo. Ma la gogna mediatica mi ricorda il cosiddetto splendore dei supplizi, quando nel passato la folla accorreva in piazza per assistere alla tortura pubblica e la bravura del boia stava nel farla durare più a lungo possibile.

Benno Neumair è stato definito “insegnante col culto dei muscoli”, si insiste anche su dettagli estetici per trarne indizi di colpevolezza?

In generale ritengo che se ci sono gli elementi per procedere a passi formali, si facciano. Se non ci sono, perché parlare alla pancia di quella folla che – salvando Barabba – ha già dato prova di non essere particolarmente affidabili in tema di giustizia? Far trapelare notizie ad arte per dare l’impressione di colpevolezza è un enorme rischio: sono non solo per i diritti fondamentali del malcapitato, ma per la stessa amministrazione della giustizia. Si cercano elementi che facciano presa nell’opinione pubblica. Ma si tratta di suggestioni. Il processo penale è razionalità, certezza, è colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. Se bastasse il sospetto allora saremmo di fronte alla sconfitta dello stato di diritto. E gli apprendisti stregoni dovrebbero rileggersi lo Zauberlehrling di Goethe: “Die ich rief, die Geister werd ich nun nicht los”, non è facile liberarsi degli spiriti, una volta evocati.

E la prospettiva della vittima?

È comprensibile ma va rifiutata. Perché da duemila anni la storia giuridica si affida a un giudice terzo? Perché la giustizia amministrata dalle vittime si chiama vendetta e crea guerra sociale, dando luogo ad una spirale di violenza. La giustizia è amministrata dai magistrati in nome del popolo: punisce con pene eque, rifugge pene esemplari, non tende alla soddisfazione della vittima, perché questa non sarà mai soddisfatta.
Tornando alla questione dei media, intendiamoci: naturalmente la cronaca può e deve occuparsi di giustizia penale, perché sono solo le dittature che amministrano in segreto la giustizia. Mi permetta però una provocazione: quanti cronisti hanno protestato per essere stati esclusi non dico dalle aule ma dai corridoi dei tribunali per via della pandemia? Nemmeno uno (o comunque troppo pochi). Forse perché non era interessante quello che succedeva? Forse dal momento che la notizia era vecchia? Oramai la polizia giudiziaria trasmette il mattinale, arriva quindi a inizio giornata una comoda e-mail con tutti i dettagli sull’arrestato, magari con comode foto in alta risoluzione, e la notizia è bruciata. Quello che succede dopo anni, al processo, non interessa più a nessuno, anche se poi l’imputato viene assolto. Mi faccia fare però almeno un esempio concreto, anzi due.

Prego.

Il caso dei “furbetti del cartellino” a Sanremo si è concluso con un’assoluzione per errori nelle indagini. Il problema, e qui sta il nodo perverso, è che l’opinione pubblica è stata talmente condizionata da ciò che ha letto e dai filmati con tanto di stemma della guardia di finanza che ritraevano l’ex vigile (diventato simbolo dell’inchiesta) mentre timbrava in mutande – che alla fine si rivolta contro la giustizia e parla di magistratura corrotta o incapace: perché a causa delle strategie di marketing delle autorità investigative ormai l’opinione pubblica è convinta della colpevolezza degli imputati. E come dimenticare la incredibile ammissione del comandante dei Ris nel processo contro Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, che ammise che il filmato con le immagini del furgone bianco non aveva dignità probatoria ma fu “confezionato per esigenze comunicative” di concerto con la procura? Protestò, finalmente, la stampa, che si sentiva usata.  

Insomma la giustizia mediatica è un problema per la credibilità della giustizia stessa.

E non solo per chi viene esposto a quella che io chiamo la (ver)gogna mediatica. Un indagato, inutile ricordarlo, è presunto innocente.

Sta dicendo che da parte dei media c’è un’impronta colpevolista che scavalca il diritto alla presunzione d’innocenza?

È così: la cronaca è statisticamente colpevolista, come dimostra uno studio dell’Unione delle camere penali italiane. Si parla di giustizia penale solo in chiave colpevolista e ciò lede il giusto processo, canone costituzionale e convenzionale (art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo), che impone che il soggetto sia presunto innocente fino a che non ci sia condanna definitiva. Ma abbiamo mai pensato per quale motivo vengono dati roboanti nomi a delle indagini, che dovrebbe essere una procedura neutra? Penso ad esempio ad “Angeli e demoni”, è un nome questo o non è pensata per essere già una sentenza? I compiti della polizia giudiziaria sono fissati nel codice di procedura penale in cui si afferma che devono essere ricercati gli elementi di prova. Io non ho mai letto di un articolo del codice di procedura penale che sancisca che le forze dell’ordine debbano fare marketing. Anzi, i pubblici ufficiali sono tenuti al segreto, e anche quando sia caduto il segreto devono esprimersi rispetto alle indagini con discrezione e riserbo. Distribuire alla stampa spezzoni di filmati con i loghi della polizia giudiziaria o foto degli arrestati in comodi formati per poter essere stampati sui giornali sono prassi illegittime, per le quali più volte l’Italia è stata condannata anche in sede sovranazionale. Vediamo praticamente tutti i giorni persone in manette in tv o suoi giornali ed è una pratica vietata dal nostro codice di procedura penale. Eppure siamo talmente assuefatti che ormai nemmeno lo notiamo più.

E i lettori si abituano allo scandalo.

Lo vogliono, invocano più gogna. Il fatto è che siamo sempre pronti a giudicare gli altri ma quando ci siamo noi nel mirino diventiamo improvvisamente iper-garantisti e indulgenti. Il sistema è malato e lo è a tal punto che diventa un problema garantire un processo giusto, perché ormai l’indagato è già condannato, perde il lavoro, la stima sociale, il suo nome ormai se lo ricorderanno tutti, e se viene assolto ci si convince che sia merito dell’avvocato, “azzeccagarbugli”, “avrà trovato qualche cavillo”, oppure “il giudice è corrotto” e la giustizia diventa vittima di se stessa. La verità mediatica che si sovrappone a quella giuridica provoca enormi danni. Ricordo quando il Corriere della Sera nel caso Amanda Knox – altro caso nel quale la sovraesposizione mediatica ha comportato “clamorose defaillances investigative”, come scrisse la Cassazione – titolò: “Assolti, ma forse sono colpevoli”. In sostanza il condizionamento colpevolista è tale da rendere incredibili le assoluzioni nei tribunali.
Badi bene: è legittimo che gli investigatori insinuino, ipotizzino, verifichino ogni eventualità. Ma non si possono confondere le ipotesi accusatorie con certezze, scambiare provvedimenti cautelari con sentenze definitive. E su questo troppo spesso gli investigatori pasticciano perché sovrappongono opinioni proprie con emergenze processuali. E i giornalisti non sono abbastanza attenti a seguire quello che il codice deontologico già prescrive e cioè di rispettare il diritto alla presunzione di non colpevolezza, usando il verbo al condizionale per dirne una.
Il vero problema nasce dalla fonte.

Cioè?

La violazione del segreto istruttorio è sanzionata con qualche centinaia di euro di multa e non fa paura a nessuno. È vietato pubblicare atti dell’indagine, ma chi se ne importa?

Da dove bisogna ricominciare?

Dal rispettare le leggi che già ci sono. Esiste il diritto fondamentale di informare e di essere informati con l’esigenza di tutela della riservatezza delle indagini. Dice Giovanni Canzio, già presidente di Corte d’Appello di Milano e Presidente della Corte di Cassazione: “Oggi lo scarto tra processo mediatico e penale sta creando fratture gravi. L’accusa apre un dialogo con la stampa e la cosiddetta ‘gente’. Finché il pm, anziché intessere il dialogo con i protagonisti del processo lo fa con i media e con il pubblico, si allargherà sempre di più un nucleo opaco. Non si può approfittare della lunghezza delle indagini preliminari e dell’ipotesi di accusa che si incista nella pubblica opinione”. Parole forti, del tutto inascoltate.

Questa “glamourizzazione” dell’informazione anche nella cronaca nera è solo figlia di logiche commerciali?
 
È un fattore di rilievo ma ne siamo tutti un po’ colpevoli. Fare un prodotto di qualità costa. Oggi prevale il titolo ad effetto, l’immagine che attira. Noi non siamo più pronti a pagare la qualità dell’informazione e l’informazione – che deve totalizzare click – insegue quello che la gente vuole.
Ma non è solo una questione di “narrazione d’impatto”, gli investigatori e i pubblici ministeri devono parlare tramite gli atti di indagine e basta. E se hanno degli elementi a carico della persona indagata devono valutare se questi sono sufficienti per l’arresto, ma se non lo sono perché darli in pasto all’opinione pubblica? Gli inquirenti hanno il diritto di fare tutte le ipotesi che credono ma se a un certo punto l’acqua ossigenata o il telefonino spento diventano un elemento fondamentale e sufficientemente grave per chiedere l’arresto allora che agiscano, altrimenti che tacciano. Quante volte vediamo delle trascrizioni informali da parte della polizia giudiziaria che vengono citati come se fossero verità inconfutabili? Quando poi purtroppo molte volte le perizie dicono esattamente il contrario. Questo succede perché l’ufficiale di polizia giudiziaria trascrive in tempo reale e può succedere che attribuisca una frase a una persona piuttosto che a un’altra, che non colga l’ironia, che ometta di precisare, eccetera, ed è tutto comprensibile. Per questo poi c’è il processo. Però a quel punto i giornalisti nelle aule si vedono poco, vengono quando c’è la richiesta di punizione della pubblica accusa per poter scrivere il titolone in prima pagina. Quello che accade dopo, a fine processo, non sembra più essere così importante.

È un fenomeno solo italiano?

No, il trial by media è un problema in molti paesi del mondo. Peggio di noi però solo la Bulgaria: in un caso una persona venne arrestata a favore di telecamere ma, dato che la ripresa era venuta male, fu rilasciata e subito riarrestata per avere un filmato di qualità. Non proprio un esempio.


Sarah Franzosini 27.01.2021

https://www.salto.bz/it/article/26012021/vergogna-mediatica-sistema-malato

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