lunedì, Novembre 18, 2024

La terza età: un tempo per donarsi (don Paolo Zambaldi)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
Negli ultimi anni la vita media si è allungata grazie a migliori condizioni economiche che hanno permesso cure, alimentazione, igiene.

 

Infatti se si viaggia un po’, si incontrano schiere di “pensionati” che con piglio giovanile girano per le città, esplorano siti naturalistici, vivono belle nuove esperienze.

 

Molti di loro poi sono un vero baluardo per le giovani famiglie più o meno stabili: accudiscono i nipoti, forniscono aiuto economico, si fanno carico di situazioni complicate e spesso assistono anzianissimi genitori…

 

Ma a un certo punto, il tempo si svuota di impegni, figli e nipoti ormai adulti hanno la loro vita. Subentra la solitudine e un senso di inutilità a volte difficile da sopportare.

 

Per quanto ci si sforzi di riempire il vuoto si ha la sensazione di fare cose sempre meno importanti. Fare per sé (corsi, viaggi, passeggiate, cenette…) alla lunga annoia, perchè non si costruiscono più nuovi rapporti, al massimo, se si è bravi, si mantengono i vecchi. Che si fanno sempre più radi visto che qualcuno muore, si ammala e sparisce.

 

In un mondo poi che ha il culto della giovinezza, del corpo, del tutto e subito, della velocità, l’inadeguatezza appare subito evidente. Come per la comunicazione tecnologica che ha escluso gli anziani, più impauriti in verità, che lenti a imparare.

 

Pare esserci dunque una contraddizione tra una vita allungata ma allungata inutilmente. Sì è vero. Ma forse l’anziano d’oggi non sa sempre valorizzare la sua “presenza”. Non mette a disposizione i suoi talenti. Spesso si rifugia in una sorta di egoismo esistenziale, che lo spinge più che a dare a pretendere, più che a cambiare a conservare, più che a farsi tollerante a indurire il suo cuore. Lo si nota sempre più spesso in questi tempi: il vecchio è spesso troppo pauroso di perdere i suoi benefici, incapace di pensare al futuro come se la vita fosse solo la sua vita!

 

In realtà la sua presenza potrebbe (e in tanti casi lo è) essere significativa, preziosa.

 

Egli infatti, dovrebbe innanzitutto sentirsi sempre portatore di esperienza.Per la lunga frequentazione della vita, delle persone, degli affetti, delle gioie, dei dolori.Esperienza però donata con spirito di condivisione e di accoglienza, con bonomia e pazienza e non, come spesso accade, imposta con sufficienza, condita dal pregiudizio (ah quando ero giovane io…ah noi sì che lavoravamo…che ci accontentavamo…). 

 

L’anziano dovrebbe riuscire ad educare al senso del limite: il corpo che cambia e spesso tradisce ogni volontà di fare, la mente che ha tempi diversi, i vari disturbi, la malattia, appartengono alla vita e come tali vanno accettati e vissuti con serenità, consapevoli che ogni momento può essere appagante. L’anziano, “arricchito” da questa “povertà” dovrebbe farsi dunque testimone dell’inutilità dell’attaccarsi troppo ai beni, agli aspetti fatui dell’esistenza, al mito della eterna giovinezza, della bellezza, dell’efficienza.

 

Egli dovrebbe coltivare la sua saggezza: approfondire, discutere meditare, visto che il tempo è la sua grande risorsa. Dovrebbe dar prova di una lettura equilibrata di ciò che succede, senza lasciarsi travolgere dall’emotività del presente, senza dimenticare le lezioni della storia vissute sulla sua pelle, senza perdere la fiducia e la speranza in un mondo capace di risollevarsi, di cambiare. Dovrebbe essere per i più giovani un porto calmo al quale ritornare, una sorgente da cui trarre nutrimento, un punto di riferimento nella tempesta del vivere.

 

Ma per far questo, deve sforzarsi di non fare la vittima: vittima dei suoi mali, del mondo che cambia, dei figli insensibili, dei partner egoisti. Deve uscire da quell’atteggiamento “ristretto” (e perciò rinunciatario) per cui il proprio orizzonte si ferma alla porta del proprio appartamento, ai propri parenti, al massimo a qualche amico di vecchia data. Deve aprirsi invece al mondo, farsi accogliente verso tutti, abbracciare con la tenerezza, che dovrebbe venire proprio dallo sperimentare la sofferenza e il limite, chiunque sia povero e solo… E sorridere sempre con benevolenza.Sorridere e abbracciare non esige né forza, né salute, né ricchezza. Esige però che non si abdichi mai alla propria umanità .

 

Infatti non si è mai troppo vecchi per donarsi.
Nei modi e nei tempi che le forze e la salute permettono. Anche solo parlare, mettere a disposizione i propri saperi, incoraggiare, consolare. Penso che così molte abissali solitudini verrebbero colmate, molto tempo davanti alla tv riempito di senso, molta tristezza cancellata dalla gioia del farsi prossimo.

 

Infine l’anziano dovrebbe insegnare ad accettare la morte, mistero oggi sempre più rifuggito, ignorato, nascosto. Ma pure incombente. 

 

Immagino che un vecchio, ormai vicino alla meta, dovrebbe aiutare tutti a riflettere su questo passaggio, che accomunando tutti, tutti ci rende fratelli, sulla fragilità del nostro essere, sull’ineluttabilità del tempo che passa, sulla gerarchia di valori spesso sbagliata che guida le nostre scelte, sul valore assoluto dell’aver combattuto “una buona battaglia”.

 

E se hanno avuto fede in un Dio che salva, che accoglie, che si è fatto “perdente” per amore degli uomini, è proprio ora, al culmine della debolezza e della fragilità, che possono esserne veri e coerenti testimoni.
don Paolo Zambaldi

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