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Coronavirus, i rifugiati sudanesi di Niamey: ‘Siamo tutti l’Italia’. E nulla sarà più come prima, se saremo tutti più umani

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

L’hanno scritto su una lettera indirizzata all’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Rifugiati di Niamey. Gli autori sono i 17 sudanesi che, dal ‘sit- in’ davanti alla sede onusiana, sono stati trasferiti ed accolti nel campo per rifugiati in attesa di partire di Hamdallaye, nei pressi della capitale Niamey. La missiva, consegnata a mano, contiene tra l’altro il seguente messaggio: “Siamo uniti alla grande famiglia italiana e condividiamo il dolore di chi, tra voi, ha perduto un essere caro a causa di questa dolorosa epidemia. Domandiamo a Dio di portare i vostri defunti nelle loro case benedette perché possano riposare in pace. Auguriamo una pronta guarigione ai convalescenti e preghiamo perché siano liberati questo flagello. Siamo tutti insieme, nel bene e nel male, cioè siamo tutti l’Italia. Firmato il Comitato Sudanese dei 17 trasferiti al campo di Hamdallaye”.

C’è chi si è sentito americano per qualche giorno nel 2001, dopo l’attacco alle Torri Gemelle, chi s’è sentito francese dopo l’attacco a Charlie Hebdo e al Bataclan, spagnolo dopo l’attacco di Madrid e Inglese per qualche ora dopo l’attacco di Londra. Nessuno si è mai sentito sudanese, nigerino, avoriano, liberiano, congolese o semplicemente algerino. Eppure ognuno di questi Paesi ha vissuto, assieme a tanti altri, guerreepidemie, spogliazioni di risorse, sfruttamento endemico della povertà, mercato di armi e di mercenari, laboratorio per gli esperimenti di normalizzazione della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Eppure ci sono state carestie, lotte per le indipendenze, primavere ribelli e rivoluzioni fallite con la complicità degli antichi maestri coloni. Nessuno si è mai sentito africano, finora.

Come se tutta la realtà fosse ormai confinata da una grande messa in scena mediatica. Come se la storia si fosse fermata il giorno nel quale i decreti governativi, in funzione dell’epidemia, hanno cominciato ad essere applicati, con la forza se necessario. Come se le quotidiane contabilità legate alla proliferazione del numero degli ammalati facesse di colpo dimenticare la vita che, con noncurante ostinazione, continua il suo cammino abituale. Come se la perdita delle proporzioni, resa ancora più evidente dal neoliberalismo mercantile, avesse fatto dimenticare il fragile destino umano che la morte da sempre attraversa. Come se la pandemia, figlia del pensiero unico, avesse la pretesa di assumere la distanza sociale, facendo passare in secondo piano le distanze sociale di classi e di popolazioni, da tempo immemorabile ‘confinate’ nella miseria.

Solo che, come si suol dire, la realtà è ostinata e allora filtrano notizie che per loro natura non lasciano nessuna traccia. Che qualche giorno fa siano stati trovati e poi salvati oltre 250 migranti abbandonati nel deserto non farà sobbalzare neppure il più militante dei giornalisti. Che ci siano almeno due mila persone in attesa nei campi del’Oim, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, rasenta la banalità. Che i campi di eliminazione progressiva e silente in Libia, sullo sfondo di una guerra per procura come in Siria, lascia l’indifferenza installarsi senza rimorso. Che si rimandino al mittente libico le barche di coloro che tentano di sfuggire all’inferno è non solo giustificato ma anche consigliato vista la situazione dell’Europa. Che il Programma Alimentare Mondiale abbia messo in guardia contro une possibile carenza alimentare di circa 5 milioni di persone nel Sahel non lascia traccia alcuna nell’immaginario umanitario del comune cittadino.

Siamo umani e questo dovrebbe bastare a condizione di riconoscere a tutti la stessa dignità, cominciando dai poveri, che fino ad oggi sparivano senza nessun contabile e quotidiano aggiornamento in tempo reale. Basta cliccare e, in alcuni siti, si possono apprezzare il numero di contagi, di guarigioni, di decessi e di posti in rianimazione. Per le morti ‘bianche’, quelle sul lavoro, non esiste nulla di simile, eppure si tratta di un cantiere che continua a produrre decessi. Nel 2000, secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, i morti nel mondo sono stati stimati a due milioni. Nel 2017 si calcola che ogni 15 secondi c’è un morto sul lavoro e dunque 2 milioni e 780 mila deceduti l’anno. Le morti ‘bianche’, perché invisibili ai più, passano clandestine perché a morire, in genere, sono i poveri. Siamo tutti lavoratori, siamo tutti umani. Più nulla sarà come prima, se saremo tutti sudanesi.

 

Mauro Armanino, Blog – Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2020

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