La decisione di Donald Trump di ritirare le truppe statunitensi dalla frontiera fra Siria e Turchia rappresenta il via libera per il presidente turco Recep Tayyip Erdogan per un’offensiva militare contro le truppe curde (e la popolazione) che abita il Nord della Siria. Il motivo ufficiale è la creazione di una zona sicura dove far rientrare i siriani che si sono rifugiati in Turchia. L’obiettivo vero è il popolo curdo, di cui si intende diluire la “densità” etnica, e dunque la forza, facendo “invadere” la regione da oltre 2 milioni di siriani. Il problema è che la maggior parte della popolazione curda si trova in Turchia: sono 13 milioni (di terroristi, secondo Erdogan); gli altri si trovano in Iran, Iraq, Siria, Armenia e Azerbaigian. Da una parte, riassume Il Messaggero di oggi – ricordando che i curdi aspirano ad uno Stato indipendente -, «Ankara teme di avere ai suoi confini uno Stato che possa fomentare le rivendicazioni dei curdi turchi, dall’altra l’Iraq ha intenzione di tenere accorpata la regione settentrionale del Kurdistan all’interno del proprio asse politico-istituzionale, così da evitare una frammentazione statale e continuare a godere delle ricche rendite petrolifere che quella regione produce».
I curdi sono stati determinanti per la sconfitta sul campo dell’Isis. Il grande timore della comunità internazionale è che il “resto” dello Stato Islamico rialzi la testa profittando dell’indebolimento del popolo curdo e del conflitto che è pronta a scatenare la Turchia. Cosa evidentemente non contemplata da Trump nel momento della decisione (tuttavia non ncora operativa, a quanto pare) di ritirare le sue truppe: una «coltellata alla schiena», l’hanno definita i curdi. Trump deve però aver preso consapevolezza della determinazione della Turchia contro i curdi, che gli Stati Uniti hanno affiancato nella lotta all’Isis anche con supporti finanziari. Per cui ora la minaccia di «annientare l’economia» del Paese se dovesse spingersi troppo in là (non per questo, sia chiaro, arriva a tenere in considerazione le aspirazioni curde ad uno Stato indipendente).
L’offensiva turca non farebbe che aggravare l’emergenza sanitaria della popolazione del nord siriano, già colpita, a fine settembre, da un bombardamento attuato dall’esercito di Damasco nel tentativo di annientare l’ultima roccaforte di gruppi ribelli e jihadisti di stanza a Idlib. E certo non aiuterebbe i lavori del Comitato che dovrebbe prendere avvio a Ginevra il 30 ottobre per un nuova Costituzione della Siria..
Sul dramma della popolazione siriana, e le conseguenze per i bambini, prime vittime del conflitto, AsiaNews ha raccolto una testimonianza dell’arcivescovo maronita di Damasco, mons. Samir Nassar. «Il dramma siriano si legge in tutta la sua portata nello sguardo dei bambini, che riflettono un vissuto così duro e amaro», afferma il vescovo. «Prima dell’inizio delle violenze, nel 2011, i bambini siriani – ricorda – guardavano alla vita con grande gioia e speranza: ora gli stessi volti esprimo angoscia, amarezza e preoccupazione». Angoscia, spiega, «davanti alla morte dei genitori, degli amici e dei vicini»; amarezza «davanti all’indifferenza del mondo intero, alla dimenticanza, all’abbandono»; preoccupazione «di fronte all’estrema incertezza per il futuro, alla mancanza di prospettive, al moltiplicarsi dei problemi sociali che spezzano famiglie già di per sé fragili e indebolite».
«Cosa possiamo fare – chiede perciò mons. Nassar – per restituire il sorriso sui volti di quei bambini? Come possiamo curare le loro ferite e permettere a questi cuori così puri di dimenticare gli incubi di una guerra così crudele? Forse dovremmo dire loro di far morire la speranza, povere anime innocenti?». Domande che diventano «una priorità, che tutte le persone di buona volontà devono affrontare e cercare di risolvere. A questo, bisogna aggiungere una vera pedagogia del perdono, per assicurare una reale riconciliazione e perdono fra tutte le parti».