venerdì, Aprile 19, 2024

Quegli insospettabili orfani di Salvini (Antonio Padellaro)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Bastava ascoltare, ieri al Senato, Matteo Salvini con il suo stile da comizio domenicale ad Abbiategrasso (con i poveri leghisti in favore di telecamera comandati a spellarsi le mani) per chiedersi come mai gli eredi Mussolini non abbiano ancora sporto querela contro chi continua ad azzardare paragoni duceschi tra il fu Capitano e il loro congiunto, che almeno sapeva parlare.

Il fatto è che dallo scorso 8 agosto in poi, con la geniale manovra della sfiducia al governo Conte Uno (paragonabile per acume e destrezza a uno che si cappotta nel parcheggio), l’ex tante cose ha lasciato senza lavoro, oltre a un plotone in gramaglie di ministri e sottosegretari, quanti sul nuovo antifascismo stavano costruendo successo e notorietà. Dando così ragione al grande Ennio Flaiano che già nel 1944, dopo aver raccolto la facezia sul come “le iscrizioni all’antifascismo fossero chiuse”, osservava che “l’Italia stando ai primi calcoli non dovrebbe produrre più un fascista sino alla fine dei secoli, ma soltanto antifascisti” (L’occhiale indiscreto, Adelphi).

A dire il vero, la mamma dei fascisti è sempre incinta, anche se il crollo delle nascite ha colpito anche questo particolare settore che, va ricordato, fino agli anni 80 era saldamente radicato in Parlamento con quel Msi, erede diretto del famigerato ventennio e di Salò, che di voti ne raccoglieva milioni (altro che i prefissi telefonici di CasaPound e Forza Nuova).

Altra cosa è invece l’eterno fascismo italiano, “la nebulosa di istinti oscuri e di insondabili pulsioni” (Umberto Eco) che, siamo seri, meriterebbe ben altro allarme rispetto al nostro giovanottone con l’occhio pigro e la voglia di Nutella. Tutto ciò per dire che la manifesta antipatia e diffidenza che il Conte Due suscita nei tanti sinceri antifascisti che dovrebbero, al contrario, essere un tantino rassicurati dalla diga M5S-Pd, fragile e improvvisata quanto si vuole ma pur sempre un argine alla “marea nera”, alla “rabbia nera”, alla “violenza nera”, può derivare (l’antipatia) da due motivi simili anche se diversi. Il primo – l’eclisse del fascismo che toglierebbe audience all’antifascismo – è solo una volgarità. L’altro argomento che secondo molti commentatori non certo di destra rende preferibile a questo governo tutto, a cominciare dal voto anticipato, si fonda su una aspettativa di tipo editoriale. L’informazione, è noto, prospera soprattutto nei conflitti come dimostrano gli ascolti televisivi seguiti alla pazza crisi di agosto e l’improvviso impennarsi delle vendite dei giornali. Certo, l’incontenibile Salvini del Papeete e il ruggito del Conte in quel del Senato sono eventi straordinari con un impatto pubblico difficilmente ripetibile. Adesso però la prospettiva sembra molto meno eccitante con un governo di necessità e con un premier destinato alla mediazione.

Dopo l’estate al mojito, rischiamo dunque un autunno camomilloso e se ciò forse può fare bene al Paese, alle tirature molto meno.

Insomma, occorre a tutti i costi un nemico. La destra della piazza urlante lo ha trovato nella retorica della sinistra voltagabbana affamata di poltrone. Mentre la sinistra non sa che pesci prendere. Perciò l’altra sera, a Otto e mezzo, quando Carlo De Benedetti (già patron del gruppo Repubblica-Espresso) dopo aver impallinato il nuovo governo si è dichiarato nettamente a favore dello scioglimento delle Camere abbiamo pensato che al posto del sottopancia che lo definiva, bizzarramente, “ingegnere” doveva esserci scritto “editore”. Ma forse ci sbagliamo.

 

Antonio Padellaro, Il Fatto Quotidiano, 11 Settembre 2019

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