venerdì, Marzo 29, 2024

Dalla società disciplinare alla società del controllo: siamo tutti Harry Caul

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Ci monitoriamo l’uno con l’altro perché nella società del controllo il nostro compito è vigilare. Non ci interessano nemmeno più i concetti di privacy o di generica sicurezza, noi siamo il suddito che ha introiettato il potere del sovrano, e lo utilizziamo per essere certi di rimanere sudditi.

 

Dalla società disciplinare siamo passati a quella del controllo, dove non è più il sovrano a sorvegliare ma è lo stesso corpo sociale frammentato ad autocontrollarsi, incessantemente. Lo hanno spiegato bene Michel Foucault e Gilles Deleuze.

Più siamo separati, messi in concorrenza tra noi al lavoro come nel tempo libero e negli affetti, più siamo disposti a vigilare l’uno sull’altro.

Non per proteggerci, ma per denunciarci.

Se l’antico percorso reclusivo – casa, scuola, fabbrica, prigione, ospedale – era simboleggiato dal panottico, cioè il potere unico e centralizzato che tutto osserva, quello nuovo – desidera, clicca, metti like, recensisci, condividi – è sublimato nel dispositivo privato: il telefonino, la webcam, la go-pro, le telecamere di sicurezza. La macchina come protesi del corpo.

La sorveglianza centralizzata la agisce il capitano Gerd Wiesler. In Le vite degli altri (2006) è incaricato dalla Stasi di sorvegliare una coppia di possibili cospiratori nella grigia Berlino Est. Il militare opera per conto del potere sovrano (lo Stato) nei confronti dei sudditi (i cittadini): la forma più semplice e lineare per descrivere il controllo nella società disciplinare.

Il tema del grande fratello, del panottico globale raccontato da George Orwell in 1984 è ripreso da Hollywood in film come Truman Show (1988), Minority Report (2002) e Panic Room (2002), ciascuno dei quali ne indaga un aspetto specifico: il rapporto tra intimità e spettacolo per Peter Weir, raccolta e gestione dei dati personali per Steven Spielberg, paranoia e sicurezza per David Fincher.

E poi c’è Tony Scott che in Nemico Pubblico (1998) anticipa la sorveglianza illegale delle varie agenzie governative americane, prima che esplodano i casi di Edward Snowden o Chelsea Manning.

Prima di questa serie di film che indagano la sorveglianza ancora come emanazione della società disciplinare, influenzati dalla marea di pellicole uscite in epoca Watergate e tendenti sempre a contrapporre l’individuo al potere, offrendo così una teleologia della liberazione, esce un piccolo gioiello che sposta completamente l’asse di rotazione epistemologico: il controllo passa da procedura disciplinare a codice, da esterno si fa interno.

Harry Caul, protagonista de La Conversazione (Francis Ford Coppola, 1974), assiste in anticipo alla perfetta rappresentazione dello stato di paranoia continua in cui vive l’uomo moderno, oggi.

Un titanico Gene Hackman impersona un investigatore privato che spia ed è spiato costantemente, senza sapere da chi, come e perché. Qui il potere non risiede più in una persona, il sovrano, né tantomeno in un luogo fisico quale la prigione: è invece diffuso ovunque, frammentato, come il delirio in cui si agita Caul.

Ogni singolo individuo sospetta dell’altro, e di se stesso. Il film di Francis Ford Coppola è un sublime trattato filosofico sul passaggio dalla società disciplinare alla società di controllo.

È poi con Niente da nascondere (Michael Haneke, 2005) che si arriva al culmine. Come nel celebre film di Coppola anche qui tutto è sotto costante sorveglianza, mentre nessuno sta osservando. La maestria del regista è nel mostrare sullo schermo gli stessi video che il protagonista riceve a casa e attraverso i quali si accorge che lo stanno spiando, rendendo allo stesso tempo palese che questi video non li stiamo guardando noi spettatori, non il personaggio che li riceve, neppure coloro che li hanno girati.

Questi video di sorveglianza esistono a prescindere, sono a disposizione di tutti e di nessuno. La paranoia, l’inquietudine e il terrore non devastano più solamente la vita di Harry Caul ma anche quella degli spettatori.

E qui arriviamo al mondo reale. Non siamo più spiati solamente dal potere centrale, dalla sua emanazione poliziesca, dalle telecamere di sorveglianza delle banche o dalla webcam del nostro computer.

Il surveillance capitalism di Shoshana Zuboff ha fatto un ulteriore salto quantico.

Le piattaforme che forniscono servizi più o meno gratuiti a miliardi di persone nel mondo in cambio della possibilità di raccogliere, immagazzinare e sviluppare i nostri dati, ci hanno definitivamente convinto che è compito nostro monitorarci l’uno con l’altro. E gli utenti della più nota piattaforma di intermediazione per l’affitto degli appartamenti sono diventati i nuovi profeti del controllo.

Nessun angolo buio, non c’è via di fuga. Ogni luogo è sorvegliato incessantemente, ventiquattrore al giorno, ogni cliente è spiato ad ogni passo, registrato a ogni bisbiglio, è monitorato a ogni respiro.

Dall’occidente all’oriente, sono sempre più numerosi i casi di clienti di appartamenti in affitto, hotel o motel, ripresi a loro insaputa. Non siamo più controllati ovunque, ci controlliamo ovunque.

Negli Stati Uniti sono aumentati i casi di clienti della piattaforma che scoprono telecamere nascoste nelle librerie o dentro i lampadari, nei condotti di aereazione o in qualche altro nascondiglio. Sempre puntate verso il letto, o la doccia. L’obiettivo è chiaro: la performance sessuale, lo spettacolo pornografico.

In Sud Corea sono scoppiati una serie di scandali per delle riprese pornografiche effettuate da telecamere nascoste negli hotel, che registrano o mandano in diretta streaming.

Emerge che la tecnologia da procedura finalizzata a ottenere risultati diventa codice, una mappatura normativa dell’esistente.

Il problema della privacy si ferma infatti solo davanti al consenso che, come insegna la Rete, è oramai esplicito a prescindere. Il consenso è codice: parte interna del fusto degli alberi, corpo organico comprensivo di tutte le norme, sistema simbolico.

Noi accettiamo il consenso – ogni volta che scarichiamo una app – di fornire tutti i dati della nostra rubrica, dei nostri spostamenti e l’accesso alla libreria delle nostre immagini.

Quando visitiamo un sito, attraverso i cookies, permettiamo di essere rintracciati in ogni momento della nostra navigazione.

Figuriamoci quando ci iscriviamo a un social network o a una piattaforma di intermediazione (per affittare o acquistare qualcosa), siamo i primi a fornire tutto quanto ci è necessario per costruire il nostro personaggio virtuale o per poter dire la nostra sul prodotto. Non per niente, il sito di cui sopra che gestisce gli affitti a breve termine, ha ben chiaro nel regolamento la possibilità che ospitante e ospite siano sempre monitorati.

Il concetto di privacy sembra sovrapporsi a quello di copyright. D’altronde ogni essere umano è imprenditore di sé stesso e rappresenta un’azienda in perenne concorrenza con i suoi simili.

È una mutazione antropologica. Come ha scritto Byung-Chul Han, “la nuova società della trasparenza” da un lato è pornografica, perché ci spinge a mostrarci ovunque, e dall’altro è repressiva, perché appunto non concede a nessuno di celare il proprio essere.

Ci monitoriamo l’uno con l’altro perché nella società del controllo il nostro compito è vigilare.

Non ci interessano nemmeno più i concetti di privacy o di generica sicurezza, noi siamo il suddito che ha introiettato il potere del sovrano, e lo utilizziamo per essere certi di rimanere sudditi.

Siamo sempre intenti a sorvegliare il nostro prossimo, per essere in grado di sorvegliare noi stessi.

Da diversi lustri nascono nelle città urbane gruppi di vicini di casa che non sono altro che organizzazioni praticanti una sorta di spionaggio incrociato tra loro stessi. In Italia è allo studio una proposta di legge che incita a nuovi e più stretti “controlli informali” tra vicini di casa.

Abbiamo dato il consenso. Siamo sempre all’ascolto e alla visione di qualcosa, immersi in un clima di paranoia diffusa. Siamo tutti Harry Caul.

Il nostro mondo è una stanza che abbiamo devastato alla ricerca dei dispositivi di sorveglianza installati da noi stessi.

 

www.idiavoli.com, 14 maggio 2019

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