Il rapporto del WWF sceglie l’umanità come unità di analisi e questo monopolizza il linguaggio della stampa. Il Guardian, per esempio, riporta che “la popolazione globale sta distruggendo la rete della vita.” Questa frase è totalmente fuorviante: il rapporto del WWF riporta effettivamente che non è tutta l’umanità ad essere consumista, ma non sottolinea abbastanza che è solo una piccola minoranza della popolazione mondiale a causare la maggior parte dei danni.

Dalle emissioni di anidride carbonica all’impronta ambientale, è il 10% più ricco della popolazione ad avere l’impatto maggiore. Inoltre, non si dice che gli effetti del cambiamento climatico e della perdita di biodiversità abbiano maggiore impatto sulle persone più povere – le persone che contribuiscono al problema in maniera minore. Sottolineare queste differenze è importante perché sono queste il problema, e non l’umanità per sé, e perché le disuguaglianze sono endemiche nei sistemi capitalisti, specialmente per via della sua eredità razzista e colonialista.

“Umanità” è una parola ombrello che tende a coprire tutte queste crepe, impedendoci di vedere la situazione per come è. Inoltre, diffonde l’idea che gli esseri umani siano intrinsecamente “cattivi”, e che sia in qualche modo parte della nostra natura consumare fin quando non è rimasto niente. Un tweet postato in risposta alla pubblicazione della relazione del WWF suggeriva che fossimo “dei virus con le scarpe”: un atteggiamento che spinge solo verso una crescente apatia.

Ma cosa succederebbe se questa sorta di auto-critica la rigirassimo verso il capitalismo? Non solo sarebbe un target più corretto, ma potrebbe anche darci la forza di vedere l’umanità come una forza benevola.

Le parole fanno ben altro rispetto ad assegnare responsabilità diverse a diverse cause. Le parole possono costruire o distruggere le narrazioni che abbiamo diffuso sul mondo, e queste narrazioni sono importanti perché ci aiutano a gestire la crisi ambientale. Usare riferimenti generalizzati all’umanità o al consumismo per parlare dei fattori preponderanti nella perdita di biodiversità non è solo sbagliato, ma contribuisce a diffondere una visione distorta su chi siamo e chi siamo in grado di diventare.

Parlare del capitalismo come di una causa fondamentale del cambiamento climatico, al contrario, ci aiuta a identificare tutta una serie di idee e abitudini che non sono né permanenti né fanno parte del nostro essere umani. Così facendo possiamo imparare che le cose non devono andare necessariamente così. Abbiamo il potere di indicare un colpevole ed esporlo. Come ha detto la scrittrice e ambientalista Rebecca Solnit, “Chiamare le cose con il loro nome distrugge le bugie che scusano, tamponano, smorzano, camuffano, eludono e incoraggiano all’inazione, all’indifferenza, alla noncuranza. Non basterà per cambiare il mondo, ma è un inizio.”

Il rapporto del WWF lancia un appello a trovare una “voce collettiva, cruciale se vogliamo invertire il trend della perdita di biodiversità”. Ma una voce collettiva è inutile se non usa le parole giuste. Fin quando noi, e organizzazioni come il WWF, non riusciremo a nominare il capitalismo come la causa principale dell’estinzione di massa, saremo incapaci di contrastare questa tragedia.

 

Questo articolo è stato tradotto da The Conversation.