venerdì, Marzo 29, 2024

Da Chávez a Guaidó

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Breve cronistoria di come si è arrivati a questa situazione insostenibile che minaccia nuovamente il Venezuela.

Autunno 2015. Il chavismo sembra essere giunto al capolinea. Dopo due anni di dura crisi economica, la sua base sociale è demoralizzata. Nella società si è diffusa l’impressione che, con Maduro, stia andando tutto male. Il tempo stringe. L’opposizione fa il botto alle elezioni parlamentari di dicembre, ottenendo una larga maggioranza. Si celebra l’imminente cambio di regime. Ricordiamoci di questo momento.

Ora facciamo un passo indietro. Ottobre 2012, elezioni presidenziali. Hugo Chávez si impone ampiamente con 8,2 milioni di voti contro i 6,5 di Capriles. Il bilancio sul controverso chavismo è, per la maggioranza dei venezuelani, più positivo che negativo. Dal 2006, la vita materiale delle persone è migliorata molto. Il PIL è più che raddoppiato e i progressi sociali nella sanità e nell’istruzione sono evidenti. Vi sono forti tensioni inflazionistiche, ma anche una forte ascesa dei consumi. La percezione dominante è che il chavismo abbia migliorato le condizioni di vita di molti, sebbene persistano forti chiaroscuri come l’insicurezza galoppante.

Metà del mondo è preoccupata dalla deriva autoritaria di Chávez. All’estero, tutti pensano che in Venezuela ci sia un serio problema di diritti politici (così affermano i leader dell’opposizione). In realtà, il vecchio establishment industriale controlla i mezzi di comunicazione che non solo non rappresentano la nuova maggioranza sociale, ma la denigrano e insultano quotidianamente. Mettetevi nei panni dei ceti popolari. Da un lato, avete un presidente che ritenete faccia i vostri interessi e, dall’altro, un’opposizione che vi ripete che siete solo dei burattini, che non c’è libertà mentre allo stesso tempo controlla la stampa, si avvale dell’uso della violenza politica e boicotta l’economia con l’obiettivo di indirizzare la vostra rabbia contro Chávez. Con chi vi schierereste?

Mettetevi nei panni dei ceti popolari. Da un lato, avete un presidente che ritenete faccia i vostri interessi e, dall’altro, un’opposizione che vi chiama burattino. Con chi vi schierereste?

Per i settori sociali dell’opposizione, la situazione è insostenibile: un regime castrista gli si sta consolidando davanti agli occhi. Bisogna essere disposti a tutto per riuscire a fermarlo. L’endogamia sociale dominante nel paese (le classi medie e alte si relazionano solo con i propri pari nei propri spazi sicuri come club, scuole, centri commerciali, ecc) rende inspiegabili le vittorie di Chávez.

Mettetevi nei panni di un venezuelano bianco della classe abbiente: «Com’è possibile che questo signore vinca le elezioni se tutte le persone intorno a me, comprese le signore di servizio e i miei dipendenti e i sondaggi sui giornali mi assicurano che la stragrande maggioranza della popolazione appoggia l’opposizione? Senza dubbio, deve esserci dietro una truffa colossale». È una caricatura, ma evidenzia i motivi per i quali, durante tutti questi anni, l’opposizione abbia negato continuamente che il chavismo avesse vinto anche una sola elezione. È tutto frutto di una grande frode elettorale orchestrata dai fratelli Castro con l’aiuto della Russia. I risultati sono manipolati. Se ci credete fermamente, almeno dal punto di vista teorico, vi sembrerà di vivere in una dittatura.

Dietro le quinte, l’estrema polarizzazione politica scatena una lotta per il controllo dei poteri dello Stato. In questo scontro, il chavismo ha un vantaggio: può chiamare alla mobilitazione da una comoda maggioranza parlamentare sotto la tutela di un presidenzialismo forte. Le forze armate impiegate dall’opposizione come un ariete tra il 2000 e il 2003, vengono epurate e il chavismo porta le cose fino all’estremo opposto, istituzionalizzando una lealtà personale incrollabile verso il presidente e comandante in capo.

In concomitanza con l’ascesa di Maduro al potere, gli attacchi contro il bolívar, valuta nazionale, si intensificano con successo. Numerosi attori trovano terreno fertile nella speculazione e nel contrabbando in Colombia di prodotti sovvenzionati dallo Stato.

Nel 2012, lo scenario è così favorevole per il chavismo che lo stesso Henrique Capriles, candidato unico dell’opposizione, assicura che il suo programma è quello di continuare le politiche sociali con maggiore efficienza e partecipazione da parte del settore privato. Questa è la sua offerta elettorale, ribadita nella riconvocazione delle elezioni dell’aprile 2013 a seguito della morte di Chávez. In quella notte elettorale vengono scoperti gli altarini. Maduro vince con uno stretto margine (7,5 contro 7,3 milioni di voti) e Capriles esplode di rabbia. 15 persone uccise, in maggior parte chavisti che celebravano una vera e propria vittoria di Pirro.

Nicolás Maduro riceve un’eredità avvelenata. La morte di Chávez mette in evidenza la fragilità del progetto. Il debito venezuelano schizza fin dall’inizio del suo mandato (anche se la caduta dei prezzi del petrolio non arriverà fino al 2014), imponendo condizioni finanziarie che rovinerebbero qualsiasi paese civile. Gli attacchi alla valuta nazionale, il bolivar, si intensificano con successo.

Indubbiamente, una delle anomalie del conflitto venezuelano è che quando scende in strada con rabbia, l’opposizione uccide molto. Il chavismo resiste all’urto.

Numerosi attori trovano terreno fertile nella speculazione, nel contrabbando in Colombia di prodotti sovvenzionati dallo Stato e, in generale, scommettendo contro il bolivar. Dall’estero cominciano manovre per strangolare l’economia venezuelana e molti dei grandi investimenti produttivi del chavismo crollano sotto il proprio peso. I miglioramenti del tenore di vita dei ceti popolari peggiorano rapidamente (solo sembra resistere, paradossalmente, il programma di edilizia popolare). Sebbene il chavismo vinca le elezioni municipali nel dicembre 2013, la situazione economica è ormai insostenibile.

Il malcontento raggiunge il proprio apice nel febbraio 2014 e si apre una “finestra di opportunità” per il cambio di regime. L’opposizione non ha un fronte unito e Capriles non è più il suo candidato. È un vigliacco che “ha rinunciato” a dare battaglia ad un Maduro che gli ha “rubato” le elezioni. La visione tradizionale torna nuovamente ad imporsi: quella che vuole una caduta traumatica del chavismo e una rottura totale con il regime. Il piano è quello di sradicarlo, di non lasciarne traccia, né sindaci né governatori né forze armate… Naturalmente, non gli passa nemmeno per la testa di aspettare che Maduro superi la metà del mandato e indire un referendum di revoca del mandato. Il momento è ora. È il quarto d’ora di notorietà di Leopoldo López [cofondatore insieme a Henrique Capriles di Primero Justicia. Condannato per le sommosse del 2014 si trova attualmente agli arresti domiciliari – ndt].

Un’ondata di violenza si diffonde in tutto il paese. Le roccaforti dell’opposizione si dichiarano in rivolta, con barricate e roghi per più di due mesi. Muoiono più di 40 persone, sei delle quali per mano delle forze di sicurezza. Paradossalmente, la maggior parte di queste morti può essere attribuita all’opposizione stessa. Questo è, senza dubbio, una delle anomalie del conflitto venezuelano: quando scende in strada con rabbia, l’opposizione uccide molto. Il chavismo resiste all’urto. Una volta esaurite le barricate, le forze di sicurezza le smantellano una ad una. Leopoldo è in prigione. Viene presentato come prigioniero politico, sebbene, per una parte dei ceti popolari, stia bene in prigione.

Dopo un anno di tranquillità e senza guarimbas [nome dei blocchi stradali organizzati nei quartieri residenziali – ndt] arriviamo all’inizio di questo articolo, nell’autunno del 2015. Il peggioramento della situazione economica è evidente. La gente deve fare i salti mortali per riempire il carrello della spesa. Nelle conversazioni per strada o nella metropolitana non si sente più nessuno che difende il chavismo. Al contrario, perfino i sostenitori più incalliti sono toccati nel profondo. Nelle elezioni parlamentari, l’opposizione raggiunge un consenso elettorale di 7,7 milioni di voti. Il Chavismo si scompone leggermente, assestandosi a 5,6 milioni. Sembra che sì, questa volta si stia verificando un cambiamento politico.

Nel corso del 2016 abbiamo assistito a uno spettacolo imbarazzante. Il chavismo istituzionale sfrutta tutti i cavilli legali a sua disposizione per arrestare la perdita di potere. L’opposizione, a sua volta, assume una posizione di unilateralità che finisce per boicottare il proprio successo. Per cominciare, la maggioranza qualificata di cui dispone in parlamento si tramuta in un nulla di fatto per soli tre seggi nello stato di Amazonas, presumibilmente voti comprati. Il risultato viene contestato, ma il parlamento in mano all’opposizione lo respinge ed entra in conflitto con il potere giudiziario, che risponde dichiarandolo illegittimo e, quindi, rendendo nullo qualunque suo atto. Una strategia che, col senno di poi, è risultata essere disastrosa.

Il secondo grosso errore riguarda il referendum di revoca del mandato. Nella fase iniziale l’opposizione avrebbe dovuto presentare circa 200.000 firme per avviare il processo che avrebbe chiuso la partita con Maduro. Attenzione, non si tratta di firme che si raccolgono facilmente. Devono essere autenticate ufficialmente in quanto hanno conseguenze giuridiche materiali; in questo caso, avviare un processo referendario. L’opposizione, con una spavalderia inspiegabile, ne presenta 1,9 milioni, prolungando il processo di autenticazione per mesi. In quella marea di firme, come previsto, sono state trovate molte irregolarità. È seguita poi la cosiddetta “presa del Venezuela”, il ritorno alle proteste di massa.

In un universo parallelo, se l’opposizione del 2016 si fosse concentrata davvero sull’obiettivo di ottenere la presidenza cercando il sostegno popolare, parlando con i settori produttivi, presentando un fronte unito, trovando un compromesso con alcuni degli ostacoli posti dal chavismo e, in qualche modo, riconoscendone il carattere istituzionale, molto probabilmente avrebbe vinto il referendum di revoca o avrebbe potuto spingere verso le elezioni attraverso la riforma costituzionale e, oggi, il Venezuela avrebbe un altro presidente. Ma no, il 2016 rimarrà per sempre come il ricordo di un’occasione persa. I responsabili non vanno essere cercati tra le fila del chavismo: le dinamiche di lotta intestina nell’opposizione le impediscono di negoziare, concordare o riconoscere la legittimità delle istituzioni bolivariane. Chi si presenta con un ramoscello di ulivo viene considerato un traditore o un agente di Diosdado Cabello [politico venezuelano, attualmente Presidente dell’Assemblea Costituente, criticato per incitamento all’odio per i contenuti del programma televisivo “Con il Mazo Dando” – ndt]. Tutto questo con il sostegno dall’esterno, dove viene dato risalto e appoggio alle posizioni più disparate, in particolare quelle di chi parla di “narcodittatura” e che potrebbe benissimo mettersi dei caschi di carta stagnola in testa.

Anno 2018. Il chavismo vuole continuare la serie positiva. Gode di un vantaggio elettorale e le elezioni presidenziali sono previste per maggio. La maggior parte dell’opposizione, di fronte al triste panorama demoscopico e al susseguirsi delle sconfitte, opta per non presentarsi, sostenendo che non vi siano garanzie adeguate.

Arriva il 2017. La tragedia. L’opposizione frustrata scende in strada più furiosa che mai. È una versione più degenerata degli eventi del 2014. Gruppi criminali vengono ingaggiati per attaccare la polizia, proteste e saccheggi si confondono. Vengono compiuti atti terroristici, incensati dalla stampa internazionale. Al culmine delle proteste, le persone vengono linciate anche soltanto perché “sembrano” chavisti. Chiunque abbia avuto a che fare con il governo si sente minacciato. Questo, per un paese in cui il chavismo ha rappresentato la maggioranza sociale per 18 anni, è davvero un gran numero di persone.

Maduro convoca le elezioni per un’assemblea costituente plenipotenziaria prevista dalla costituzione. L’opposizione, ovviamente, mette in discussione il fatto che l’esecutivo abbia l’autorità per poterlo fare e non si presenta. La base del chavismo, in un plenum della partecipazione, va a votare in massa. Non perché abbiano fiducia o siano contenti dell’operato di Maduro. Al contrario, c’è un enorme malcontento rispetto alla situazione economica e alle mancanze del governo di fronte alla crisi. Votano perché hanno paura dell’opposizione. Gli atti di violenza li hanno profondamente colpiti e più di otto milioni di persone si recano alle urne. Una spinta per Maduro che supera così l’aiuto involontario ricevuto dall’opposizione in parlamento. La violenza si ferma. La sconfitta per l’opposizione è senza appello, e si è ritrovata screditata e divisa. Il chavismo approfitta del momento positivo e, prima della fine dell’anno, convoca elezioni regionali e, successivamente, municipali, vincendo entrambi gli appuntamenti.

Anno 2018. Il chavismo vuole continuare la serie positiva. Gode di un vantaggio elettorale e le elezioni presidenziali sono previste per maggio. La maggior parte dell’opposizione, di fronte al triste panorama demoscopico e al susseguirsi delle sconfitte, opta per non presentarsi, sostenendo che non vi siano garanzie adeguate (e sotto la pressione degli alleati all’estero). Senza dubbio, qualcosa degno di nota: come è riuscita l’opposizione a fare in modo che Maduro, nonostante fosse nel bel mezzo di una situazione economica disastrosa e con le condizioni di vita in chiara regressione, apparisse come l’opzione migliore per la maggior parte dei venezuelani. Anche se le elezioni non sono equilibrate (si sa già che vincerà Maduro) oltre 6,2 milioni di persone si recano alle urne per dargli il proprio sostegno. Però la sua credibilità politica non è solida e, ovviamente, non durerà per sempre. Le misure adottate per fermare l’inflazione galoppante non funzionano e gli esempi di inefficienza sono sempre più frequenti ed eclatanti, generando un pericoloso cocktail di rabbia e disperazione che trasuda ovunque. È qui che l’opposizione (o l’amministrazione Trump) vede una nuova “finestra di opportunità”.

Delle elezioni adesso, sotto assedio internazionale, non sarebbero né giuste né eque. Abbiamo un gruppo di governi che influenza esplicitamente l’elettorato.

Gennaio 2019. Maduro inizia formalmente il suo secondo mandato di sei anni. Salvo rinuncia o morte del presidente, l’opposizione non potrà fare nulla fino al 2022, quando potrà convocare un altro referendum di revoca dell’incarico. Si prevede una salita del prezzo del petrolio e Maduro potrebbe essere in grado di consolidare la sua posizione. In questo contesto, salta fuori Guaidó, autoproclamatosi presidente, intenzionato a organizzare elezioni non regolari che lo legittimino. Una manovra con scarso sostegno interno, ma con un forte supporto internazionale. Sventola la bandiera della pace, affermando che grazierà i militari e i ministri chavisti che lo sosterranno (per quali crimini reali o immaginari, non è dato sapere).

Purtroppo, sembra che la sua strategia richieda l’uso della forza, di nuovo. Chissà che non ci ritroviamo alla resa dei conti. Forse, questa volta, l’opposizione riuscirà davvero a conquistare il potere. Oppure, può essere l’ennesima mossa avventata che la lascerà, di nuovo, senza leader e umiliata, e i venezuelani più affogati che mai dalle sanzioni, l’isolamento internazionale e il crollo dell’economia reale. Staremo a vedere.

Quel che è certo è che qualsiasi individuo, organizzazione o governo che si preoccupi del benessere delle persone dovrebbe lavorare affinché le cose cambino (in particolare per quanto riguarda la crisi e lo strangolamento economico del Venezuela) e, se ritenuto appropriato, promuovere il cambiamento politico pacifico senza spazzare via le istituzioni e la costituzione esistenti, senza rese di conti, dove nessuno venga minacciato né vengano pianificate eliminazioni di “bande chaviste”, senza amnistie generali per crimini commessi da ignoti o lo smembramento della PDVSA [“Petróleos de Venezuela, S.A.” – Petroli del Venezuela S.p.a, compagnia petrolifera statale – ndt]. Dobbiamo ridurre l’odio e riconoscere le ragioni e posizioni della contro parte e, come priorità verso l’estero, impiegare una diplomazia meno mediatica e radicale, abbandonando l’utilizzo delle sanzioni e degli attacchi economici come parte del repertorio per promuovere il cambio di regime. In questo modo si possono fare passi in avanti  causando meno sofferenza. Sfortunatamente, non è all’ordine del giorno.

P.s: In questi giorni, è stato dato un ultimatum a Maduro affinchè (si dimetta e) vengano ripetute le elezioni presidenziali. Delle elezioni adesso, sotto assedio internazionale, non sarebbero né giuste né eque. Abbiamo un gruppo di governi che influenza esplicitamente l’elettorato: se continuerete a sostenere Maduro vi puniremo con l’isolamento, la fame e la violenza, ma se votate per quest’altro ragazzo verrà il Fondo Monetario Internazionale e salvarvi. Quindi, Duque, Trump e Sánchez possono pure venire a fare campagna elettorale: non sarà comunque una proposta seria o accettabile.

Se si vuole veramente proporre una riconvocazione delle elezioni in un contesto diverso, si potrebbero raggiungere accordi, ad esempio, in cambio della revoca immediata delle sanzioni e della cessazione delle operazioni sulla valuta. Una volta fatto questo, e dopo un ragionevole periodo di tempo, si potranno sviluppare le condizioni minime di equità. Ma questo tipo di proposte non sono sul piatto né sono previste. Ricordate, l’obiettivo è quello di sradicare completamente il progetto politico originale del chavismo. Nessun altro piano verrebbe accettato. Tutto molto democratico.

 

 

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