sabato, Aprile 20, 2024

Lectio Biblica: Esodo (incontro del 08 gennaio 2019)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

DALLA PASQUA ALLA LODE

(Es 12, 1 -15, 21)

Testi liberamente tratti da:

Fretheim T.E., Esodo, Torino, Claudiana, 2004;

 

Indice:

1)Pasqua passato e presente Es 12, 1-28

2)Una notte tragica e felice Es 12, 29-36

3)Libertà e fede Es 12, 37-51

4)Il corpo e la memoria Es 13, 1-16

5)Provvidenza e programmazione Es 13, 17-22

6)L’attraversamento del mar Rosso Es 14, 1-31

7)Una vittoria cosmica Es 15, 1-21

 

La Mezuzà: Interfaccia tra D-o e l’Uomo

 

Il dettaglio più importante per la sicurezza della casa viene da D-o, ed è la mezuzà, un piccolo rotolo di pergamena che la Torà comanda di affiggere a tutti gli stipiti delle porte della casa. L’idea di mettere in mostra il nostro rapporto con D-o sugli stipiti ha origini molto lontane nel tempo, esattamente appena prima dell’esodo dall’Egitto. In quel frangente D-o ordinò ai nostri antenati di uccidere un agnello e aspergerne il sangue sugli stipiti delle loro case; questo avrebbe identificato la casa con il sangue come casa ebraica e il Signore sarebbe passato oltre tutte queste case durante la piaga della morte dei primogeniti egizi. La mitzvà del sangue sugli stipiti quindi protesse gli ebrei dalla piaga (Esodo 12:7, 13:22-23). La mezuzà rappresenta lo stesso concetto. I nostri Maestri hanno insegnato che quando un ebreo affigge una mezuzà, D-o protegge la casa da ogni male (vedi Talmùd, Avodà Zarà 11a), e sul retro della pergamena sono scritte tre lettere in ebraico: “shin” dalet”, “yud”, che compongono uno degli ineffabili Nomi di D-o, ma che sono considerate per tradizione l’acronimo di “shomèr daltòt Israèl”, “custode delle porte ebraiche”. Questa protezione non è soltanto una ricompensa per osservare il comandamento ma fa parte integrante del comandamento stesso: la mezuzà protegge le nostre case letteralmente. Ad esempio, se l’entrata è profonda, la pergamena viene messa nella parte esterna dello stipite, affinché l’aurea protettiva della mezuzà copra l’intera casa (Talmùd, Menachòt 33b). La mezuzà però contiene un messaggio più profondo della protezione in senso letterale. Lo stipite rappresenta l’accesso al “domicilio dell’io”. Per tutta la giornata abbiamo a che fare con gli altri: in strada, nei negozi, in mezzo al traffico, in ufficio… Quando finalmente arriviamo a casa la sera, non vediamo l’ora di entrare nel nostro dominio privato. Qui, non ci sono altri padroni, non dobbiamo preoccuparci di gestire colleghi, clienti e passanti sconosciuti. Qui, siamo noi stessi e facciamo quello che vogliamo. Lo stipite della nostra porta è l’ingresso del nostro mondo interiore, nostro esclusivo dominio. Però, è anche il luogo dove dobbiamo soffermarci per un momento su quello che noi siamo. Quando ci introduciamo nelle profondità della nostra anima ci chiediamo perché la sosteniamo, qual è il nostro scopo. Per cosa viviamo? Cosa ci dà la forza di andare avanti?

Questo e Questa

I Maestri insegnano che la parola stessa “mezuzà” risponde alla domanda; essa contiene le due parole in ebraico “zu” e “ze”. Entrambe vogliono dire “questo”, la prima nella forma femminile e la seconda nella forma maschile. Il rapporto del popolo ebraico con D-o è spesso espresso in termini di sposa e sposo; quando la Torà parla di noi, usa la forma femminile, come nel verso “am zu yatzàrti li” “Ho formato questo popolo per Me” (Isaia 43:21), e quando parla di D-o usa la forma maschile “ze”, come nell’espressione “ze E-li”, “questo è il mio D-o” (Esodo 15:2). Quando passiamo davanti alla mezuzà e la baciamo, ci soffermiamo a riflettere sulle parole scritte nella pergamena. Il primo verso è l’inizio dello Shemà (Ascolta, Israele, il Sign-re è nostro D-o, il Sign-re è uno” – Deuteronomio 6:4), che rappresenta la missione dell’ebreo e dell’umanità: il Sign-re è il nostro D-o, non è un’entità astratta nei cieli ma è qui con noi. Adesso che finalmente siamo a casa, ci rendiamo conto che non siamo mai veramente soli, D-o è sempre con noi. Ci ha creati, ci dà la forza di andare avanti ed è la nostra ragione di vita. Siamo vivi per compiere i Suoi comandamenti; abbiamo tempo per noi stessi per poter studiare la Torà; abbiamo denaro a sufficienza per poter aiutare i più poveri; abbiamo una casa per poter crescervi i figli, la generazione successiva di ebrei osservanti.

La Porta

“Dèlet” in ebraico significa “porta”, ed è legata alla parola “dal”, che può significare sia “impoverito” sia “elevato”. La porta è l’interfaccia tra la nostra casa e il mondo esterno, e tra noi e D-o. Si affigge la mezuzà solo all’entrata di un domicilio destinato agli uomini; solo gli uomini infatti possono essere ricettori della benedizione Divina. Prima di riconoscere il nostro rapporto con D-o siamo spiritualmente poveri, ma una volta capaci di legarci alla Divinità, ci eleviamo a grandi altezze. E quando l’uomo si innalza, D-o si abbassa verso di lui. Con la liberazione dall’Egitto si è arrivati alla totale trascendenza, quando D-o “passò oltre” le porte. La porta rappresenta il punto di interfaccia tra D-o e l’uomo; passare oltre la porta è un dono che D-o elargisce di Sua volontà, non richiesto e non indotto. Non è commisurato al nostro sforzo ed è al di sopra della nostra portata; è un regalo dall’Alto.

Di Lazer Gurkow, chabad.org

 

Introduzione

La redazione di Esodo 12-15 rende chiaro che la liturgia (celebrazione) è la chiave per la sua più corretta interpretazione.

L’intera narrazione infatti abbonda di dettagli sul rituale pasquale e di canti di lode.

L’effetto più evidente di questa ermeneutica liturgica, è di porre i fatti narrati, al di fuori del regolare flusso della storia. Essa infatti conferisce loro un carattere non diverso da quello che una “sacra rappresentazione” dà al racconto natalizio, un carattere in qualche modo “impressionistico” in rapporto agli avvenimenti reali e dunque ben al di là di un’ordinaria ricostruzione nel tempo e nello spazio.

Lo scorrere della storia è in qualche modo episodico, come le scene di un breve brano teatrale o i momenti appunto di una liturgia.

1)PASQUA, PASSATO E PRESENTE Es 12,1-28

 

Questa sezione comprende:

La parola di Dio rivolta a Mosè riguardante il rituale-Pasqua e azzimi combinati insieme-che deve essere seguito alla luce dei futuri avvenimenti.

Un discorso di Mosè agli anziani riguardante soltanto la Pasqua.

Non parliamo ora dei dettagli riguardanti il rituale, che si trovano, se li si vuole approfondire, nei dizionari biblici, ma ci concentriamo sugli aspetti teologici della narrazione.

Suddividiamo l’analisi, per semplicità, in tre punti:

a)Il legame tra liturgia e storia

b)Il significato del sangue

c)Il significato di Pasqua

 

a)Il legame fra liturgia e storia

Un popolo liberato da poco, si deve creare pratiche e istituzioni in linea col suo nuovo status. Deve trovare un modo per conservare/celebrare la sua storia, per mettere in rapporto “il prima” col “dopo”.

 Ma nel caso della Pasqua la liturgia (celebrazione/memoria) precede l’avvenimento concreto della liberazione. Il dopo e il prima sembrano capovolgersi.  Ciò accade per dimostrare come nell’esodo, storia e liturgia, sono così intimamente intrecciate da non poterle comprendere rettamente se separate l’una dall’altra. La liturgia non ha modellato solo l’aspetto letterario, ma anche l’avvenimento stesso. L’avvenimento è liturgia. Perciò, l’identificazione dell’azione di Dio nel testo, non può essere strettamente associata a un avvenimento storico. L’azione di Dio è infatti anche un avvenimento liturgico.

Questa interpretazione potrebbe anche avvalorare il punto di vista che la pasqua sia radicata in un pre-esistente rito di passaggio, proprio del periodo del nomadismo. In quel caso infatti si agiva liturgicamente per celebrare preventivamente le opere divine.

Ma quali che siano state le radici della Pasqua, ora se sono state trascinate nel cuore dell’avvenimento liberatorio e proposte da Dio per un avvenimento che sta per accadere.

b)Il significato del sangue

Diversamente dalla funzione che aveva nei riti nomadici, che era sostanzialmente quella di antidoto agli influssi maligni, di semplice “simbolo” di protezione, qui il sangue ha in e da sé stesso proprietà che automaticamente proteggono dal male.

Perché? Da cosa dipende il suo vero valore?

Importante qui è la parola, la promessa legata a un segno, non il segno in sé per sé. Il sangue è un segno per “voi” (per Israele) e non per Dio! Vale a dire è un segno della promessa divina: Dio si impegna a passare oltre le case contrassegnate dal sangue. Israele può essere certo che Dio manterrà fede a questo impegno.

Non è allora irrilevante che venga utilizzato il sangue. Il segno non è semplicemente un contrassegno, come se fosse una sostanza colorata qualunque, che colpisce l’occhio. Il sangue è vita; il sangue è ciò che rende vitale ogni cosa vivente. Il sangue costituisce la vita della creazione, il suo insostituibile pilastro. Il sangue dato dai primogeniti egiziani salva il sangue del popolo oppresso: dunque esso non è solo simbolo di protezione, ma segno di vita spesa e di vita salvata.

c)La Pasqua /pesha/passaggio

La pasqua è la Pasqua del Signore. Come tale è un veicolo sacramentale per rendere efficace e reale la liberazione dell’esodo sia per la generazione presente, sia per le future.

Quando Israele rivive la pasqua, non si tratta di una finzione, come se nulla accadesse realmente nel rituale; o non è che tutto accade come un richiamo mentale alla veridicità di un avvenimento originario. Il linguaggio della memoria non è qui un argomento” leggero”, che richiama alla mente alcuni racconti del passato. Si tratta invece di vivere realmente un fatto (la liberazione), in modo tale da essere sempre e ancora ricostituiti come il popolo di Dio.

Questa comprensione della Pasqua è centrale alle due tradizioni, giudaica e cristiana.

La liturgia giudaica pasquale (Haggadah di Pasqua) sottolinea infatti che i partecipanti a ogni celebrazione siano gli attuali partecipanti all’opera redentrice di Dio: Dio fece uscire noi dall’Egitto.

La pasqua serve anche da importante sfondo per la comprensione neotestamentaria della morte di Gesù e della Cena del Signore.

 

 

2)UNA NOTTE TRAGICA, UN GIORNO FELICE      ES 12,29-36

 

Come abbiamo già notato, la collocazione di questa piaga, nel mezzo di considerazioni rituali (celebrazione della Pasqua), sospende il normale fluire della storia, ponendola fuori dal tempo e dallo spazio ordinari.

Il racconto viene presentato con un linguaggio semplice e chiaro; non c’è abbellimento letterario, nessun indulgere nel gustare quel che è accaduto agli egiziani. Anche se felice per la ritrovata libertà, Israele come il suo Dio, non prova alcun piacere nella morte di quelle persone. Questo imprime all’intera scena una certa solennità.

Volgiamo ora l’attenzione ai due aspetti maggiori della narrazione: si tratta di una storia di morte e di una storia di nuova vita.

La morte: accadde nel mezzo della notte, quando tutto quel mondo era oscuro. Le tenebre della notte si confondevano con le tenebre dell’evento. Nessuna casa fu risparmiata, neanche una. Si trattò di un’azione svoltasi quando tutti dormivano.

Per quanto sia difficile dirlo le vittime furono in primo luogo bambini, ragazzi e ragazze, dovunque fosse un primogenito in una famiglia. Non aiuta molto dire che nessuno soffrì; per impiegare un’immagine moderna, si trattò, quella notte, di una sindrome di morte infantile improvvisa in tutto il paese d’Egitto.

Si può quasi sentire il grande grido che si levò, dai genitori, incluso lo stesso faraone.

Per quanto si possa parlare di” giudizio” nel senso di “conseguenza” di ciò che è stato fatto prima, (il genocidio dei bambini ebrei ordinato dal faraone), nessun lettore può gioire per la morte di bambini.

Potrebbe risultare utile rifarsi a paralleli storici, non con lo scopo di giustificare le uccisioni, ma per richiamare alla memoria altre storiche espressioni di violenza.

Forse si potrebbero tentare accorte analogie tra il faraone e Hitler, non dimenticando però che le bombe americane uccisero molti bambini tedeschi svegli o addormentati, nei più disparati e non prevedibili luoghi di operazioni belliche. Una cosa è parlare delle bombe americane, ma sembra alquanto blasfemo presentare Dio come uno che lancia bombe.

Il testo però, indica chiaramente il soggetto di questo giudizio: Dio colpì tutti i primogeniti in Egitto, dal più piccolo al più grande, sia animali sia umani. Ciò non significa che Dio uccise direttamente ogni singolo primogenito, uno dopo l’altro.

Il testo infatti impiega diversi vocaboli (per definire il termine “piaga”) che chiariscono la causa non- divina (o non direttamente divina) di quelle morti.

Ad esempio negà (tradotto con “piaga “, è un frequente riferimento a malattie); negep (“piaga” ma intesa come pestilenza e colpi improvvisi); deber(pestilenza per le epidemie del bestiame); mashit (“sterminatore” che rimanda alla distruzione e alla pestilenza).

L’ipotesi più credibile è che si sia trattato di un’epidemia fulminante, che uccise In tempi rapidi.

Come le altre piaghe, l’accento su “tutte/ogni”, intende presentare un aspetto della creazione impazzita. L’ordine morale si è “rivoltato contro” in modo tale che l’ordine della natura, incluse le epidemie, è diventato esso stesso caotico.

Quando è ancora buio subito dopo la morte del proprio primogenito, il faraone fa chiamare Mosè e Aronne. Ordina loro di prendere tutto il popolo, insieme ai loro animali, di lasciare l’Egitto e di servire il Signore, come Mosè aveva chiesto.

Il narratore formula le ultime parole del faraone a Mosè nel linguaggio della benedizione: benedite anche a me! Il dolore e la paura sembrano indurlo al riconoscimento della potenza di Dio.

La vita: La narrazione continua in modo quasi repentino, facendo sfilare rapidamente dinanzi al lettore varie scene esemplari di questi ultimi momenti sulla via della libertà. Si deve indugiare su ogni parola, perché la libertà e il nuovo status garantito da Dio, sono davvero preziosi.

12,33 Gli egiziani nel loro insieme, reagiscono e ciò stupisce. Come un unico corpo, forse pensando di essere le prossime vittime, essi spingono gli Israeliti fuori dal paese. E messo così sotto pressione, il popolo d’Israele prende il suo pane non lievitato e parte.

Il narratore si sofferma soltanto per informare il lettore che in obbedienza a Mosè, essi hanno già richiesto e ottenuto gioielli e preziosi dagli egiziani, i cui cuori erano stati da Dio resi ben disposti verso Israele. E così essi lasciarono gli egiziani spogli dei loro oggetti di valore. Il loro status ora è cambiato; essi lasciano l’Egitto” rivestiti di tutto”, non come schiavi ma come persone innalzate a un nuovo livello di vita da parte del loro Dio. I loro vestiti e i loro gioielli sono quelli di persone non più schiave, ma libere.

3)LIBERTA’ E FEDE ES 12,37-51

 

I versi 37, 51 sono un testo composito derivante da molte fonti e tradiscono una pluralità di visioni. Per questo la stesura finale contiene un numero elevato di episodi. E’ come se ogni scrittore, nelle cui mani è passato il testo, avesse inserito alcune note sull’importanza di questo avvenimento fondamentale.

 Il Popolo è in cammino. Dopo anni di schiavitù la libertà raggiunge il popolo d’Israele sulla strada verso il confine.

Chiariamo alcuni concetti.

a)Chi era iI popolo?: il popolo era “una folla di gente diversa”, costituita non più dai soli discendenti dei 12 figli di Giacobbe.

Molti non israeliti erano stati integrati nella comunità di fede, mentre altri gruppi sociali, senza alcun dubbio, sfruttarono l’occasione per scegliere la libertà. La libertà per Israele significa, dunque, libertà per altri. Quando il popolo di Dio viene liberato, il coinvolgimento è generale. I benefici della libertà hanno un effetto a cascata su tutti quelli con i quali esso viene in contatto, appartenenti o meno alla comunità di fede. Così è stato sempre nel corso dei secoli, spesso nonostante gli sforzi del popolo di Dio di chiudersi in se stesso. La liberazione di Dio non è riservata soltanto a pochi eletti è a vantaggio di tutto il mondo…

b)Ma c’erano differenze?: sì, vanno effettuate delle distinzioni fra israeliti e non israeliti  rispetto al rituale Pasquale. La Pasqua è una festa per la sola comunità di Israele. La circoncisione è l’elemento distintivo, in quanto segno dell’appartenenza a quella comunità di fede, che confessa il dio della Pasqua. Non si tratta di un nuovo livello di esclusivismo, ma del riconoscimento che la Pasqua è una festa per chi ha fede in questo Dio. Agli altri è rivolto l’invito a entrare a far parte di tale comunità attraverso la circoncisione, un segno tangibile della loro scelta… L’esperienza della libertà è così integrata nella confessione di fede nel Dio che libera.

c)Il popolo di Dio è accompagnato da una grandissima quantità di greggi, armenti e bestiame. Vengono liberati, sia gli animali sia le persone. La libertà produce i suoi effetti anche oltre gli esseri umani. Un tema ripreso volta dopo volta nelle pagine bibliche. Il Dio di Israele è un Dio che vuole liberare l’intera creazione: “Il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo si sdraierà accanto al capretto (…) e un bambino li condurrà” Is 11,6

Questo popolo è una comunità in cammino. Non si attarda; dinnanzi all’opportunità di libertà, non bisogna indugiare, esso infatti procede nel viaggio, spedito: non è appesantito dalle provviste che potrebbero farlo ritardare (Come ricorda l’evangelista Luca: “Non portate né borsa né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada” Lc 10,4). Molto di quanto è vicino e legato alla vita di schiavitù, deve essere infatti lasciato indietro. Altrimenti la libertà assumerà le forme di una nuova schiavitù.

d)Questa comunità di fede è una realtà intergenerazionale. Il numero delle persone coinvolte nell’ esodo – 600.000 uomini più donne e bambini – pare troppo elevato. Questo significherebbe una cifra superiore a 2 milioni di persone, tenuto conto di una normale distribuzione statistica. Alcuni studiosi però hanno tradotto la parola elep, con clan familiari, anzichè con migliaia- Quindi circa 600 unità famigliari “allargate”. Altri ritengono il dato numerico un’iperbole, mirata teologicamente. Ma bisogna ricordare che l’elemento quantitativo è un’immagine generica per identificare il popolo del tempo di David e di Salomone: un modo per confessare che proprio quell’ Israele era stato condotto fuori dall’ Egitto dal suo Dio

e)Questa sezione contiene due testi di passaggio che si preoccupano di sottolineare che l’Esodo e la veglia pasquale avvennero nello stesso giorno. Chiariamo il senso, il perché…

La notte di veglia in onore del Signore, deve essere una notte di veglia da parte degli israeliti di tutte le generazioni successive. Tutti per sempre dovranno ricordare che Dio ha “vegliato sul popolo, l’ha protetto e liberato dall’oppressione” . Tutti per sempre dovranno associare quella notte con l’uscita dall’Egitto.

Nel versetto 51 l’esodo viene annunciato quasi come un dato di fatto, anche se l’attraversamento del Mar Rosso non ha avuto ancora luogo. Perché? : perchè la liberazione di Israele non è semplicemente un esser condotti fuori dall’Egitto, una dislocazione geografica, si tratta invece di essere liberati dalle forze del caos, di essere reinseriti nel progetto creazionale di Dio.

4)Il CORPO E LA MEMORIA ES 13, 1-16

 

Esaminiamo ora prima i temi teologici principali e poi riflettiamo su alcuni passaggi e considerazioni redazionali.

Temi teologici principali:

1) il narratore continua a focalizzare l’attenzione del lettore su quel che Dio ha fatto in favore di Israele. L’azione redentrice di Dio, riempie la scena.

2) nello stesso tempo c’è un ripetuto sguardo al futuro e alla nuova terra, un luogo pieno di doni e carico di responsabilità. Israele può essere tranquillo che Dio terrà fede a questo impegno: egli stesso si è legato in questo rapporto. Tuttavia il punto focale per parlare del futuro, non risiede nella speranza, dato che l’insediamento nel paese è considerato una certezza.

3) il ritmo base del testo non è allora quello di memoria e speranza, ma quello di memoria e celebrazione.

 

Infatti:

 – la consacrazione dei primogeniti (che dovrà ripetersi per sempre), è messa in parallelo con la morte e la vita dei primogeniti nella notte di Pasqua.  Siccome Dio li ha salvati, essi Gli appartengono!

il mangiare pani azzimi replica in modo specifico la fretta con la quale Israele lasciò l’Egitto

i vari dettagli liturgici della Pasqua sono anch’essi repliche di avvenimenti di quella notte.

inserire pag 94 di invito alla lettura

4) come è avvenuto con la Pasqua, la natura completa e ripetitiva di ciascun elemento del rituale, indica che questi sono veicoli nei quali e mediante i quali Dio effettua la salvezza per ogni nuova generazione.

Il coinvolgimento diretto dei bambini in ogni rituale (…In quel giorno istruirai tuo figlio…13,8), incorpora le nuove generazioni in questa realtà salvifica.

Queste istruzioni sono cioè date per la continuità della vita e per la benedizione di Israele. La preoccupazione non è che Dio debba essere ringraziato in forma appropriata, ma che l’esperienza salvifica, sia una realtà vivente per ogni israelita di ogni età.

5) parte integrale di quest’esperienza è che quanto avviene nella liturgia, sia correttamente interpretato. Per questo si evidenziano specifiche istruzioni per i bambini (Quando tuo figlio domani ti chiederà…tu gli risponderai…13,14).

Inoltre il legare strettamente l’istruzione sul rito, al proprio corpo, (…segno sulla tua mano e ricordo fra i tuoi occhi.13,16.) è fatto a motivo della parola “affinché la legge del Signore sia nella tua bocca”.

La mente non è un deposito abbastanza affidabile per questa parola che dona la vita; essa deve essere vicina al proprio io fisico,( mediante la circoncisione ,lo scialle di preghiera, con strisce di cuoio che sostengono frammenti di pergamena su cui sono scritte frasi della torah). Qui il corpo viene messo con pianezza a servizio della memoria. Tutto questo per assicurare che ogni nuova generazione possa conoscere quella parola e sperimentare la realtà alla quale essa rende testimonianza.

Considerazioni redazionali/generali

1)Sono necessari alcuni commenti generali sulla questione dei primogeniti. Il primogenito ha un ruolo importante in molte società antiche, in relazione anche a uno status e a diritti ereditari specifici. È una tradizione ancora viva presso alcune culture moderne. Inoltre, nelle civiltà contadine antiche, anche i primi nati degli animali domestici e i primi frutti dei raccolti, venivano messi da parte e spesso offerti alle divinità.

Gli israeliti ripresero questa prassi e le conferirono un’importanza del tutto particolare

-Essi infatti credevano che Dio fosse il donatore della vita e quindi la vita dei primogeniti veniva consacrata/sacrificata a Dio come ringraziamento.

– Nello stesso tempo venivano predisposti diversi modi per il loro riscatto, mediante un’offerta.

La prassi assume nuovo significato alla luce dell’esperienza Pasquale di Israele. I versi 15-16 (…poichè il faraone si ostinava a non lasciarci partire, il Signore ha ucciso ogni primogenito…Per questo io sacrifico al Signore ogni primo frutto del seno materno…questo sarà un segno sulla tua mano…) approfondiscono questa connessione storica in un modo abbastanza sorprendente e chiariscono ad esempio il fatto, che la morte dei primogeniti egiziani sacrificati, non è dimenticata; è anzi impressa a fuoco per sempre nella memoria d’Israele.

2) il materiale concernente la festa dei pani azzimi è collocato fra le sezioni che si riferiscono ai primogeniti e quindi deve essere interpretato come parte della loro consacrazione. La festa dei pani azzimi deve essere celebrata cioè a “motivo di quello che il Signore fece per me, quando uscii dall’Egitto”.

Il pane azzimo è così integrato nel punto focale di ogni memoria di quella notte. Il primo giorno di pani azzimi coincide con questa notte. E’, probabile che questa fosse celebrata per 7 giorni consecutivi accompagnando la comunità fino al primo giorno della liberazione.

4) il linguaggio del primogenito viene utilizzato anche in Es 4,22 (Israele è il mio figlio primogenito) in senso collettivo, per descrivere il rapporto di Israele con Dio . Questo passo si riferisce all’intero popolo come primogenito di Dio e quindi farebbe riferimento sia gli uomini sia le donne. Si tratta di un uso metaforico del termine, ma in questi testi significato letterale e metaforico, sono intrecciati. Anche la morte e la vita nella notte di Pasqua non fanno alcuna distinzione tra primogeniti maschi e femmine. Quando Israele arriverà in Canaan l’inclusione rimane, ma la prassi del riscatto riguarderà soltanto i primogeniti maschi.

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