La condanna inflitta al governo Orbán dal Parlamento Europeo è finalmente una buona notizia. Tanto più buona se si tiene conto dell’ arroganza occidentalocentrica che caratterizza l’Europa.
Mai, in quarant’anni, si era riusciti a indurre l’Assise di Strasburgo a guardarsi allo specchio: a prendere in considerazione le tante violazioni dei diritti democratici impunemente perpetrate dai propri stati membri. Certo meno gravi di quelle attuali in Ungheria, ma non abbastanza per permettersi di glorificare senza mai un cenno autocritico le proprie superiori virtù. (Basterebbe pensare a cosa è accaduto in Irlanda del nord negli anni ‘80, solo per fare l’ esempio di una battaglia, contro il governo di sua Maestà Britannica, che abbiamo sempre perduto). È sempre sembrato che la sola autorizzata a prendere le misure della democrazia del mondo fosse l’Ue, lo strumento per farlo detenuto a Bruxelles così come, a Parigi, si conserva gelosamente il metro d’oro che ne certifica l’esatta lunghezza. La condanna di Orbán è dunque un evento storico, e speriamo significhi che si comincia a prestare attenzione al rapido deterioramento della nostra già malconcia democrazia.
Il voto che condanna il governo ungherese ha prodotto un’altra novità di rilievo: la spaccatura del Partito Popolare, cui Orbán appartiene, e che però una buona metà dei suoi deputati si sono rifiutati di assolvere.
Anche questa è una buona notizia ma è anche il segno del processo di decomposizione delle forze politiche tradizionali, di destra di centro e di sinistra, tutte investite dai problemi inediti che la globalizzazione finanziaria sta facendo scoppiare e cui non sanno far fronte ricorrendo alle loro vecchie ricette. Avviene ovunque, e il parlamento europeo che eleggeremo nel maggio prossimo avrà certamente una composizione assai diversa da quella che abbiamo conosciuto fino ad ora.
La prima novità che si delinea è quella di una spaccatura definitiva del gruppo che aggregava i vari moderati partiti democristiani e la creazione di una corposa destra estremista. E sovranista. Tenuto conto del ruolo che ha ed ha avuto Angela Merkel nell’Eu, la scomposizione della sua forza politica di provenienza sarà carica di conseguenze.
Ma anche la sinistra è investita dallo tsunami, sia quella socialista che quella affiliata al Partito della Sinistra Europea: in Francia non ci sono quasi più né il Psf né il Pcf, ma un “renziano” come Macron, oltre all’iper sovranista Mélanchon che ha addirittura dichiarato di voler buttare fuori Syriza dal Partito della Sinistra Europea; in Germania è nato in seno alla Linke, forse il più forte e assennato fra i partiti che vi appartengono, il movimento “Aufstehen” (alzarsi), un appellativo che già di per sé suscita preoccupazione, senza parlare di quello scelto in Italia da Fassina, ”Patria”, un termine che evoca memorie funeste. Le parole non sono acqua ma cariche di simbologie non innocue.
Il cosiddetto sovranismo – e cioè la convinzione che i problemi che incombono potrebbero esser risolti solo che a decidere sia un governo nazionale anziché europeo – sta dilagando anche in Italia. Tutti convinti che siccome i Savoia erano pessimi sarebbe stato giusto abbandonare l’Italia e rientrare nel borbonico Regno delle due Sicilie.
La difficoltà che oggi incontriamo a controllare le decisioni che contano dipende dal fatto che a livello globale non c’è istituzione democratica che possa esercitare questa funzione; e tanto meno potremmo esercitare la nostra sovranità se ci ritirassimo nel nostro piccolo mondo, affogati nel Mediterraneo dove sarebbe ancora più facile esser ingoiati dai tanti potentissimi squali, anche nostri concittadini, che lo popolano.
L’Ue, così come è stata costruita, è pessima, ma è là che dobbiamo vincere se vogliamo recuperare un po’ di potere decisionale, perché quella è la sola dimensione che può contare qualcosa nello scenario globale, e possiamo ottenere che questo qualcosa sia meglio di quanto possiamo trovare altrove perché con tutti i suoi difetti l’Europa è il contenitore del maggior numero di diritti democratici e sociali che la storia ci ha fornito. Come anche il voto di Orbán in fondo ci ha dimostrato.
Insistere sull’Europa tuttavia vuol solo dire scegliere un campo di battaglia, non un prato accogliente e su questo c’è di che riflettere autocriticamente. Per l’assenza di dimensione europea di tutte le nostre iniziative proposte lotte legami associativi. La condanna dell’Ungheria ci ammonisce anche per questo: possibile che abbiamo consentito senza muovere un dito che in questi decenni crescesse un’Ungheria così, e, più in generale, un’Europa come quella di Visegrad? Qualcuno deve pur esserci ancora vivo che ricorda quanto e come siamo stati coinvolti nel ’56 dalla rivolta di Budapest, una speranza che fu affossata nel sangue ma che aveva anche mostrato la ricchezza di energie e tradizioni socialiste democratiche di quel paese, poi via via spente senza che noi sinistra occidentale ci occupassimo di intrecciare con loro un qualche dialogo? Possibile che da quando è caduto il Muro non ci siano più stati legami politici, iniziative comuni, persino amicizie? Possibile aver anche solo pensato che l’annessione all’Ue dei paesi dell’ex blocco sovietico, di cui hanno dovuto accettare senza fiatare tutte le decisioni pregresse, buone solo per integrare il loro ceto compradore, non avrebbe avuto conseguenze su tutti noi? Come pensiamo di cambiare l’Europa se non ci impegniamo a costruirne una società comune e dunque a far crescere nuovi protagonisti? Non è solo il Trattato di Maastricht o la Troika che impediscono una economia europea retta dalla solidarietà anziché dalla competizione.
Se è così è anche perché la società europea si è incattivita, e ognuno si chiude sempre più nel localismo, nella sua piccola patria, considerata più sicura della condivisione.
Orbán non è popolare solo in Ungheria.
(Luciana Castellina, il manifesto, 14.09.2018)