La paura del terrorismo jihadista spinge tra le braccia di regimi autoritari molti musulmani che vorrebbero un cambiamento in senso progressista. In Occidente, intanto, la libertà di religione viene considerata ormai come un bene non da tutelare ma da limitare in nome della sicurezza, accettando come “ragionevoli” alcune discriminazioni.
Almeno su un punto i movimenti armati per lo Stato islamico hanno avuto successo. Non certo sul piano militare, dove continuano ad accumulare sconfitte. Sinora, i risultati sui campi di battaglia sono stati fallimentari: una lunga scia di sangue e una terribile contabilità di tante vittime, spesso innocenti e inermi, in radicale contrasto con tutta la dottrina classica dello jus in bello elaborata dalle scienze religiose islamiche. Allo stesso modo, anche il bilancio politico non è esaltante: in nessun caso i movimenti sono riusciti a conquistare il potere fino in fondo, instaurando lo Stato islamico o restaurando il Califfato.
Tali movimenti hanno ottenuto solo un effetto, non voluto, ossia la mobilitazione delle masse contro di loro. Questo però ha prodotto il rafforzamento di ciò che altrove ho chiamato «il primato dell’elmetto» (sottinteso “sul turbante”, che regola da quasi quaranta anni l’Iran): ha offerto il pretesto e dato il destro per la perpetuazione di regimi politico-militari, che, per definizione, chiudono i pochi spazi di democrazia che movimenti pacifici della società civile in molti Paesi a maggioranza musulmana hanno cercato di conquistare e di affermare.
L’unico vero risultato rilevante che i movimenti hanno ottenuto, almeno in Europa, è l’idea che si possano sacrificare diritti umani fondamentali in nome della sicurezza, di fronte ad un nemico che ti colpisce al cuore con una serie di attentati terroristici, sempre più difficile da prevenire. In particolare, sta passando, grazie ad autorevoli pronunce dell’Alta Corte europea o di Alte Corti nazionali, l’idea che si possano introdurre ragionevoli discriminazioni nell’esercizio della libertà religiosa. Mi riferisco, nel primo caso, al pronunciamento dell’Alta Corte di giustizia della Ue (marzo 2017) sulla giusta causa di licenziamento da parte del datore di lavoro nei confronti di chi indossa sul posto di lavoro segni visibili di appartenenza ad una religione e che si rifiuta di toglierli. Il ragionamento fatto dai giudici europei è che tutto ciò non costituisca una discriminazione, dal momento che, se un’azienda privata vuole tutelare la sua neutralità nei confronti di differenze culturali e religiose, può licenziare un suo dipendente qualora non si adegui a tale regola.
Si dà il caso, tuttavia, che l’Alta Corte abbia emesso sentenza in riferimento a dei ricorsi presentati da due donne musulmane (una cittadina belga e l’altra francese) che si erano rifiutate di togliersi lo hijab (il velo e non il burqa o il niqab, dunque) sul posto di lavoro. In un caso senza che esistesse un regolamento in cui si stabilissero chiaramente tali regole; nell’altro, a fronte della richiesta di un cliente che aveva chiesto che ad una riunione non fosse presente un’impiegata che indossava il velo. Non è possibile licenziare, tuttavia, prosegue la Corte, se un’azienda non ha un regolamento in cui siano esplicitamente banditi i segni esteriori di appartenenza religiosa. Inoltre, non è accettabile proibirne solo alcuni e consentirne altri, creando di conseguenza un palese svantaggio per chi appartiene ad una religione rispetto ad un’altra.
Se è vero che nel diritto la forma è sostanza, è altresì vero che, come nel caso su cui la Corte europea è stata chiamata ad esprimersi, la forma diventa formalismo astratto, che non riesce a nascondere la doppia discriminazione che nel licenziamento per “giusta causa religiosa” si realizza nei confronti di donne di fede musulmana, giacché è di questo che si tratta: donne e musulmane. In un caso – quello belga – addirittura non esisteva un regolamento che vietasse di mostrare simboli d’appartenenza religiosa.
Ma tant’è, ormai la moderna cultura dei diritti sembra entrata in una fase di moratoria, se uno dei diritti fondamentali della persona (la libertà di religione, che include anche la libertà di poter portare sulla propria persona simboli di fedeltà al proprio credo) è fatto oggetto di limitazioni. Il lavoratore è giudicato non per la qualità della sua prestazione, ma per il fatto di portare addosso un segno che lo identifica religiosamente e, come nel caso in questione, può essere licenziato non perché timbra ripetutamente il cartellino in ritardo o non svolge appieno le sue mansioni. Non mi pare che ci siano precedenti nella giurisprudenza del diritto del lavoro in Europa che si possa essere licenziate (perché parliamo di fatto di donne) per un capo di abbigliamento che rinvia ad un universo di credenze religiose.
Non so cosa sarebbe successo se, al posto delle due signore musulmane, ci fossero state due giovani donne cattoliche che portavano ben visibile una collana con un crocifisso o due ebrei con la kippah o un giovane sikh con il turbante e così via. Dietro la formula astratta «nessun simbolo religioso nella mia azienda, per cui o ti adegui oppure ti posso licenziare in tronco» (com’è avvenuto nel caso francese, senza congruo preavviso), in realtà si cela lo stigma negativo nei confronti di un simbolo religioso, ossia del velo (discutibile quanto si vuole, ma per un soggetto adulto, cittadino di uno stato europeo, comunque frutto di una scelta personale), come segno incompatibile con la laicità dello Stato.
La decisione della Corte di giustizia somiglia al ragionamento (per alcuni versi più trasparente) della Corte costituzionale italiana, cui essa è ricorsa in merito alla legge regionale del Veneto che regolamenta i luoghi di culto. Essa prevede, ad esempio, all’art. 31bis che siano la Regione e i Comuni a stabilire i criteri per la costruzione di chiese, templi e centri di preghiera. L’articolo 31ter, inoltre stabilisce che, prima di concedere la possibilità di costruire nuovi luoghi di culto, occorra individuare nei piani regolatori le aree idonee provvedendo a garantire strade di accesso, opere di urbanizzazione, parcheggi e così via. Sin tanto che non ci saranno tali riferimenti precisi, le nuove chiese e moschee andranno costruite fuori dai centri abitati, in zone destinate a servizi, centri commerciali, palestre ecc. In ogni caso, sarà possibile indire un referendum cittadino per decidere se sia possibile costruire una moschea in città.
In una norma transitoria, poi, si ribadisce che le nuove regole non valgono per tutti quegli edifici che già possiedono i requisiti di destinazione d’uso a luoghi di culto (dunque chiese, sinagoghe, patronati, oratori, campi sportivi parrocchiali, case del clero o di rabbini). I sindaci devono emanare ordinanze per la chiusura di tutti quei luoghi adibiti a spazi di preghiera che non hanno tale destinazione d’uso. Un impianto di norme palesemente rivolto a impedire l’apertura di centri di preghiera per i musulmani e alla costruzione di moschee (che sinora non ci sono in Veneto) nonché all’apertura di chiese evangeliche africane. Si tratta di una ragionevole discriminazione, secondo Luca Antonini, docente di diritto costituzionale all’Università di Padova, il quale ribadisce che ciò è comprensibile poiché le religioni non sono tutte eguali, come ha dichiarato in una intervista rilasciata al Corriere del Veneto l’8 aprile scorso.
Saranno pur ragionevoli, ma sono pur sempre discriminazioni su basi religiose. Tale modo di pensare, autorevole per le sedi in cui prendono forma e sostanza giuridica, indica che nella cultura giuridica l’idea che si possa e si debba classificare le religioni sia in base al criterio della loro anzianità di servizio (storico) in una società sia in forza del criterio sicure/pericolose, a ben guardare, mi pare che possa essere considerato forse come l’unica vera vittoria dei gruppi armati che compiono attentati in nome di Allah in Europa. Stiamo perdendo qualcosa che appartiene alla nostra tradizione giuridica e culturale. Se in una legge regionale, avallata dalla Corte costituzionale, si arriva a giustificare in punta di diritto che la decisione relativa all’apertura di un luogo di culto spetti al popolo, vuol dire che abbiamo cominciato a considerare la libertà di religione come un bene non da tutelare ma da limitare, in nome della sicurezza.
(Enzo Pace, sociologo delle religioni, già docente all’Università di Padova, Confronti, 30 aprile 2017)