venerdì, Novembre 22, 2024

Il suicidio culturale della Heimat (Luca Fazzi)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

E’ vero o no che siamo di fronte al suicidio culturale della patria sudtirolese?

Il giorno in cui il presidente dell’Indonesia proponeva al Parlamento lo spostamento della capitale Giakarta sull’isola del Borneo per evitarne lo sprofondamento sotto il livello del mare, il nuovo comandante degli Schützen, Jürgen Wirth Anderlan, guidava l’azione di protesta per l’abolizione della toponomastica fascista introdotta dal fascista Ettore Tolomei nel 1922. Non sappiamo se alle 6 e 30 del mattino, ora dell’inizio della spettacolare iniziativa, il barbuto comandante avesse già letto i giornali che riportavano le informazioni relative alle conseguenze dell’esplosione avvenuta un paio di giorni prima in un sito nucleare sovietico e ricordavano alla popolazione mondiale che il pericolo del disastro atomico è oggi molto più attuale che non durante gli anni della Guerra Fredda. Così come non è possibile appurare se la pasionaria Eva Klotz commentando la genialità dell’azione era già stata informata dei risultati dell’ultimo World Population Prospects, elaborato ogni due anni dal Dipartimento degli affari economici e sociali dell’ONU, che stimava in 10 miliardi nel 2030 il numero di abitanti sulla terra, sottolineando come tra le dieci nazioni più popolose sono da annoverarsi i paesi africani come Nigeria, Uganda e Congo da cui proviene il maggiore numero di profughi che sbarcano attualmente in Europa.

Anche rispetto al pericolo di una nuova italianizzazione della lingua, dei cartelli, della burocrazia non è sicuro il comandante Wirth Anderlan non abbia scambiato lucciole per lanterne. I dati ufficiali dell’Astat parlano di un numero sempre minore di giovani tedeschi che conoscono l’italiano, per cui il rischio di una perdita della lingua madre sembra essere alla radice scomparso. Sul territorio provinciale le aree in cui è presente la componente di popolazione di madre lingua italiana si sono ridotte dall’entrata in vigore del cosiddetto Pacchetto di circa il 30%, mentre lo stesso problema della toponomastica è stato risolto con la cancellazione di circa il 60% dei toponimi sulla cartellonistica territoriale di montagna e non.

Parlare dunque di suicidio culturale della Heimat sudtirolese come effetto di un presunto processo di italianizzazione strisciante è un’affermazione che nella migliore delle ipotesi può essere derubricata a conseguenza di una allegra bevuta di Terlaner Weissburgunder o di Pinot Grigio caldarese. Il tema del suicidio culturale della Heimat tuttavia non è solo una provocazione peregrina e surreale. Sotto i pennoni delle bandiere biancorosse, a fianco delle processioni per il corpus domini dei paesi, sotto i vestiti tradizionali orgogliosamente messi in mostra a ogni cerimonia e rituale, un processo di erosione potentissimo di valori e tradizioni è da anni effettivamente in atto, senza che nessuno o solo pochi ne parlino. Questo processo non è attribuibile allo Stato (canaglia) italiano o agli effetti dei decreti fascisti di mussoliniana memoria ma va rintracciato nelle conseguenze di una globalizzazione, purtroppo per molti aspetti più subita che governata, che spinge violentemente per trasformare in modo radicale le basi sociali, demografiche e economiche su cui si basano le società tradizionali.

Nel 2018 la provincia di Bolzano le presenze turistiche sono state più di 33 milioni, richiamate da una nuova Disneyland alpina in cui alberghi a cinque stelle sono costruiti ogni dove, il territorio è trasformato in funzione dell’intercettamento dei nuovi fiumi di denaro in spregio della conservazione degli ecosistemi naturali, piste da sci sorgono ovunque tenute in vita drenando riserve di acqua ogni anno più evanescenti. Strade e autostrade sono regolarmente intasate di colonne di macchine di stranieri che portano con sé non solo quattrini ma anche aspettative, modelli di comportamento e stili di vita che alterano inevitabilmente i modelli di vita comunitari locali. Se una volta l’appartenza alla comunità rappresentava il metro di misura del vivere quotidiano, oggi il crescere dell’individualismo è visibile in ogni angolo dei paese: dalla ricerca della costruzione di una casa più bella e moderna rispetto a quella del vicino (ovviamente CasaKlima A), all’acquisto della macchina più veloce, alla riduzione delle forme di solidarietà informali sempre più aggrovigliate sul rapporto strumentale di vicinato e sempre più escludenti del diverso o dell’estraneo in negazione dei valori fondanti delle comunità alpine tradizionali che una porta aperta a chi aveva bisogno la hanno per secoli sempre garantita.

Sulle migliaia di ettari di terreno dei fondo valle le coltivazioni di mele e di viti sono alimentate ogni giorno da inquinanti di cui nessuno o quasi vuole parlare e le poche iniziative tese a affrontare il problema, come quella del Comune di Malls in Val Venosta, sono subito tacciate di essere azioni che turbano l’ordine sociale e economico costituito. La struttura demografica della popolazione è anche ormai completamente trasformata non solo nelle città dove la dinamica è ovviamente più spinta, ma anche nelle vallate e nelle periferie. Il tasso di natalità attuale si è dimezzato rispetto a quello degli anni ‘70 e le famiglie con sette o otto figli che erano la regola nel dopoguerra sono un ricordo sbiadito. Mentre aumentano invece divorzi e separazioni anche nei paesi dove la religione e la Chiesa ricpmprono un ruolo formalmente centrale nella vita collettiva, il futuro è quello di una società invecchiata con una percentuale inesorabilmente crescente di over 65%.

La continuità con la tradizione contadina e feudale, scavando a fondo nei meandro della complessa società locale, è data praticamente ormai solo dal tono ossequioso con cui ancora la gran parte della popolazione si atteggia nei confronti dei potenti di turno, che una volta erano i conti e i baroni, e oggi sono i fratelli Ebner con il loro asfittico monopolio dell’informazione e il loro sempre più gigantesco conflitto di interessi.

Questi processi inesorabili di incontro tra un mondo tradizionale troppo spesso eccessivamente fragile sotto il profilo morale e troppo spesso improvvidamente attratto da un facile guadagno, e una globalizzazione che non ha nessuna intenzione di fermarsi al Brennero o a Salorno sono visti come problematici ancora da una minoranza di persone. Pochi sono quelli prudenti nell’esaltare i successi del più bel paese del mondo e a guardare in profondità a cosa realmente sta succedendo. Pochi parlano di frenare la bolla turistica che si sta mangiando territorio, usi e costumi della popolazione locale. Pochi parlano di limitare drasticamente il traffico per limitare l’impatto sulla natura. Pochi cercano di capire le aspettative dei giovani sia italiani che tedeschi che abbandonano la provincia con il loro bagaglio di conoscenze acquisite per lavorare in ambienti più aperti sotto il profilo sociale e culturale. Pochi, troppo pochi, infine, chiedono di superare le barriere anacronistiche tra gruppi linguistici come presupposto ovvio per affrontare le sfide di una società sempre più multietnica e globalizzata, mentre nessuno o quasi parla delle strutture di potere occulte che si approfittano della svendita del territorio per fare lucro e profitti spesso in nome della Heimat naturalmente perché il vero conflitto di interessi in salsa sudtirolese unisce affari e tradizioni (con la benedizione dei pochi parroci locali rimasti come non dimentica mai di fare notare il quotidiano Dolomiten.)

Forse gli Schützen rispetto a molti di questi temi potrebbero fare sentire la loro voce. Forse potrebbero ritornare a essere una forza di trazione di un cambiamento equilibrato, onesto e non ambiguo tra un futuro dalle mille incognite e un passato destinato a non tornate più. Sarebbe bello vedere il Comandante Wirth Anderlan sfrecciare un giorno sulla sua grande moto, con la lunga barba al vento, alla testa di compagnie di cappelli piumati orgogliose di rivendicare una terra meno svenduta al denaro, un’agricoltura meno inquinante, una informazione più libera, meno comitati di affari nascosti, una società più aperta e inclusiva. Magari tra cento anni qualcuno si ricorderà allora ancora di lui come di un nuovo eroe sudtirolese.

 

Luca Fazzi, salto.bz, 18.08.2019

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