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Non c’è il fascismo, ma la svastica sì

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Si sta sottovalutando la saldatura tra radicalità neofascista e demonizzazione dell’immigrato: un misto di paura, faciloneria, incultura e disprezzo della memoria ingigantito da una campagna elettorale irresponsabile

Si deve a Vittorio Feltri, che è uomo d’onore, la mirabile sintesi della stagione in cui viviamo: «Peggio del fascismo c’è solo l’antifascismo», 
ha scolpito in tv. Forse pensava con queste parole di chiudere la parentesi nera dei fatti di Macerata, e invece ha finito per portare un altro mattoncino 
al colossale monumento alla semplificazione, all’insignificanza, alla generale banalizzazione che domina 
il panorama. E che non ci fa vedere 
che cosa sta accadendo, ci spinge a dimenticare, ci impedisce di riflettere.
Ultimamente gli episodi odiosi si sono moltiplicati: violenze, svastiche e braccio teso. L’Anpi ne ha contati più 
di 140 in due anni, oltre a censire 500 siti internet che diffondono il verbo neofascista. Solo negli ultimi mesi, la cronaca segnala a Pavia la spedizione punitiva di un gruppo di skinhead contro nordafricani; a Napoli l’irruzione con saluto romano in un locale dove si parlava di rom; in una scuola di Roma, nel popolare quartiere della Garbatella, il divieto dei genitori ai loro figli 
di cantare in classe “Bella ciao”.

Cinquanta sfumature di nero. Forza Nuova – che depone teste di maiale dinanzi alla Sinagoga di Roma e all’ambasciata di Israele, assalta gli africani e innalza striscioni negazionisti – conta oggi 14 mila iscritti e 240 mila seguaci su Facebook, strumento 
che amplifica ogni loro parola. Hanno anche una lista per le elezioni 
del 4 marzo presentata con tanto di conferenza stampa a Montecitorio.

Nelle Marche, molto prima della tragica sparatoria di Luca Traini, era stato dato alle fiamme uno stabile destinato a bambini stranieri; erano state fatte esplodere bombe dinanzi a un immobile che ospita extracomunitari; e un tifoso ultrà, ex pugile, aveva ucciso un nigeriano con un pugno. Perché tanta violenza e proprio qui? C’è chi ricorda che in questa regione era stato avviato, e con successo, un virtuoso programma di integrazione; e chi fa notare che i 16 deputati e gli 8 senatori dei collegi marchigiani, se strappati allo storico “predominio rosso”, 
il 4 marzo potrebbero perfino essere decisivi per la destra. Forse il primo elemento è stato brodo di coltura 
delle paure xenofobe cinicamente strumentalizzate; il secondo aiuta 
a capire gli imbarazzi e i silenzi del mondo politico dopo i fatti di Macerata.

Si dirà: ma un impetuoso vento di destra soffia dappertutto. Vero. Ma proprio per questo il fascio-terrorismo di Traini dovrebbe inquietare perché – dopo Usa, Ungheria, Austria, Germania, Olanda – trascina l’incubo in casa nostra. Eppure, l’Italia brilla per aver ignorato il fenomeno, fatto spallucce 
e alzato una cortina di silenzi. Magari in nome della responsabilità, come a Macerata dove la sinistra ha disertato la piazza mostrando confusione 
e debolezza anche oltre i propri demeriti. Episodio non marginale.

Gli estremisti delle nuove destre sentono di muoversi ormai in un contesto mutato, colgono un clima 
più indulgente, godono di impunità 
in barba a leggi e Costituzione, dispongono di coperture insperate. Dopo i fatti di Macerata, Pd Forza Italia Lega e 5Stelle hanno fatto a gara nello smorzare i toni, ma già prima i neofascisti avevano raccolto una certa accondiscendenza: Silvio Berlusconi, per esempio, ha rivalutato il Ventennio costringendo Sergio Mattarella a una pubblica reprimenda; e se nel ’93 fu il Cav. a sdoganare Gianfranco Fini, oggi è costretto a inseguire il lepenismo di Matteo Salvini. In Germania il saluto romano è reato; a Roma Forza Italia Lega e 5Stelle si sono battuti per affossare la legge Fiano che vieta la propaganda fascista. A dimostrazione, lì, di un lutto elaborato anche nei suoi simboli; qui di un passato che non si intende affrontare se non negandolo.

Non c’è un fascismo alle porte, certo, eppure due commentatori attenti come Ernesto Galli della Loggia e Paolo Mieli vedono attinenze tra oggi e gli anni 1919-22, il primo nella impunità diffusa, il secondo nella prevedibile instabilità prossima ventura. Oggi il dato nuovo, e sottovalutato, è forse nella saldatura tra radicalità neofascista e demonizzazione dell’immigrato, un misto di paura, faciloneria, incultura e disprezzo della memoria ingigantito da una campagna elettorale irresponsabile e incarnato nella biografia stessa di Luca Traini: fascista, leghista, una zanna di lupo simbolo del nazismo tatuata sulla fronte e un tricolore che lo avvolge nascondendo la pistola con la quale 
ha sparato sui neri.

In poche parole, ha ancora senso parlare di antifascismo? Sì, verrebbe da rispondere, almeno finché un fascismo strisciante c’è, o cerchi alimento nella xenofobia montante. Nella famosa intervista concessa a Giuliano Ferrara (“Corriere della Sera”, 27 dicembre 1987) nella quale definiva superate le norme che vietano la ricostituzione del partito fascista, Renzo De Felice, grande storico del Ventennio, diceva tra l’altro: «Noi non abbiamo una tragedia sociale come quella dell’immigrazione nordafricana in Francia che ha portato il fascismo lepenista fin dentro le fabbriche. Dunque possiamo ragionare, informare, parlare del fascismo 
con maggiore serenità». 
Parlare, capire, non rimuovere. 
Per trent’anni non lo abbiamo fatto. Speriamo che non sia troppo tardi.
  

 

(Bruno Manfellotto, L’Espresso, 23 febbraio 2018)

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