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Gran Torino
(USA 2008) di Clint Eastwood – dur. 115′
con Clint Eastwood, Bee Vang, Ahney Her, Christopher Carley,John Carroll Lynch
Trama: Un pensionato vedovo sta seduto nel suo portico con una cassa di birra e un anziano labrador sdraiato ai suoi piedi. Nel vialetto di accesso al garage s’intravede una splendida Gran Torino degli anni 70, mantenuta in perfetta efficienza. L’ha costruita lui, quando era operaio alla Ford. Il vecchio, Walt Kowalski, ringhia, sputa e borbotta insulti alla vecchia cinese del portico a fianco, che gli risponde nella sua lingua. È stizzoso, burbero, razzista, alienato dai propri figli e (peggio ancora) dai nipoti e ostile a quasi tutto il vicinato, composto per lo più da famiglie Hmong, gli asiatici alleati dell’Occidente durante la guerra d’Indocina, che negli anni 70 emigrarono in America per sfuggire alle persecuzioni. Nella strada di Highland Park (sobborgo di Detroit) dove abita Walt ormai vivono soprattutto “musi gialli”, “negri”, “mangiafagioli”, alcuni organizzati in bande di teppisti violenti. Ormai la vita passa davanti, di fianco, a Walt, finché due giovani Hmong non aprono uno spiraglio di comunicazione. Asciutto, elegante, lineare, perfetto, Gran Torino è uno dei film più lucidi e morali di inizio XXI secolo: questo Callaghan (o Will Munny, o Josey Wales, o ranger Garnett) incazzato, che ancora non si è ripreso (come Alvin di Una storia vera, come gli States) dai sensi di colpa del passato, scopre solidarietà, affetto, buon cibo e istintiva comprensione nel mondo degli occhi a mandorla. E decide, per loro, per sé, per il suo passato, di dare una risistemata al vicinato: fa rappezzare una casa in rovina, dà una lezione alla gang dei violenti, affida a mani sicure la Gran Torino, la labrador Daisy, lo spirito dell’America democratica. Lui, di origine polacca, cresciuto tra italiani e irlandesi, li affida ai Hmong.
Benvenuti nell’unico terzo millennio possibile per un uomo giusto come Walt Kowalski (e come Clint Eastwood).
Premi: Ha vinto un premio ai Nastri d’Argento, David di Donatello. Il film ha ottenuto 1 candidatura a Golden Globes e ha vinto un premio ai Cesar.
Così la critica:
Roberto Nepoti (La Repubblica)
Le prime notizie arrivate su Gran Torino parlavano di un Eastwood di pregio, però più semplice, più da “grande pubblico” del solito: non un capolavoro. Ma allora, da che cosa si riconosce un capolavoro? Intanto, la semplicità – quando è unita alla capacità di dire cose importanti – è un pregio, non un difetto. E Clint dice cose molto importanti con estrema, classica semplicità. Nel raccontarci la storia di Walt Kowalski, metalmeccanico in pensione reduce dalla guerra di Corea e fresco vedovo, convoca temi come il razzismo, il rapporto padri-figli, nientemeno che la capacità di amare. Interpretato da Clint, Kowalski è un misantropo che ringhia come un mastino, sta sempre a un passo dal suo fucile M-1, manifesta odio per i “musi gialli” che gli hanno invaso il quartiere. Eppure Walt sa amare, molto più dei suoi grassi e squallidi figli, bravi padri di famiglia americani cui il film riserva tutto il suo disprezzo. Diventato eroe per caso della comunità cinese, il vecchio solitario s’ incaricherà dell’ educazione – virile, sentimentale, al lavoro – di un timido adolescente asiatico, Thao, proprio quello che ha tentato di rubare la sua auto-feticcio, la Gran Torino del ‘ 72 centro simbolico della storia. Un grande romanzo di formazione, e in due sensi: non solo “cresce” il ragazzino, ma anche l’ uomo al tramonto della vita. Kowalski consegna al ragazzo le chiavi per il mondo degli adulti, impara che si possono avere molte più cose in comune con i musi gialli della porta accanto che con i propri figli. Semplice ed epico, Clint è più eroico quando estrae un accendino (l’ epilogo) di quando, giovane Callaghan, tirava fuori la sua 44 Magnum. Non basta? In un film che flirta di continuo con la morte, inserisce pause da commedia geniali. Come in tutti i tragici, in Clint alberga l’ anima di un grande comico. Che occorre, ancora, per fare un capolavoro?
Roberto Silvestri (Il Manifesto)
Stranamente dimenticato, la notte degli Oscar, questo potente, commuovente, divertente, ma anche «insostenibile» e (forse troppo duro) film che racconta un’amicizia nei quartieri periferici di Detroit. Quella improbabile e poetica tra Thao, un sedicenne hmong (arrivato lì perché la sua comunità vietnamita si era mostrata fin troppo fedele agli Usa durante la guerra, e la chiesa luterana aveva organizzato la benvenuta deportazione in Michigan di gente così servizievole) e il «bianco» Walt, vecchio reazionario americano, ex combattente e massacratore in Corea, non senza un gravissimo «peccato» alle spalle (diventato via via un incubo difficile da estirpare, che né moglie né prete né psicologo han saputo o voluto curare), circondato ormai, nel suo quartiere operaio già ridente, da una sconfinata, inetta e diffidente massa di «orridi musi gialli». […]