Nel discorso politico ci viene riproposto continuamente il mantra che le elezioni devono essere addomesticate in funzione della governabilità, ma non viene mai esplicitata fino in fondo la concezione che sostiene questo discorso. Dobbiamo ringraziare Galli della Loggia che in un editoriale sul Corriere della Sera(21 agosto) l’ha fatta emergere senza peli sulla lingua. La tesi di fondo è che le elezioni «dovrebbero servire a far decidere agli elettori non già da chi vogliono essere rappresentati, bensì soprattutto da chi vogliono essere governati». Quindi, si dovrebbe dire, non tanto a eleggere il Parlamento, ma ad eleggere direttamente il capo dell’esecutivo. Il Parlamento ci sarebbe ancora, ma in esso dovrebbe operare una maggioranza «monocolore», che si riconosca nella guida del premier, e dunque sia ad esso sostanzialmente soggetta.
Guarda caso, questa tesi ripropone una fotografia della legge Acerbo, la legge che impose al Parlamento eletto nel 1924 una maggioranza “monocolore” che obbediva al capo del governo come una falange romana, con i risultati che tutti conosciamo.
Secondo questa impostazione, la vera funzione del voto è quella di consentire ai cittadini di scegliersi un governo. Ciò che davvero conta è che dalle elezioni emerga l’indicazione chiara ed univoca di un Governo e del suo capo. Insomma la democrazia, secondo questa concezione, che oggi è ritornata in voga e viene trasformata in senso comune dagli opinion leader, si risolve nel diritto dei cittadini di scegliere da chi vogliono essere comandati. La riforma elettorale, Italicum, prima dell’amputazione operata dalla Corte Costituzionale, era perfettamente coerente con questa visione. Il giorno stesso del voto avremmo saputo a quali individui era attribuito il potere di prendere le decisioni politiche poiché nel Parlamento si sarebbe costituita – per legge, non per volontà degli elettori – una “maggioranza monocolore”, prona ai voleri del Capo politico.
Attraverso l’Italicum il ceto politico perseguiva l’ambizione di trasformare le elezioni in una mera procedura per investire un capo politico del potere di determinare la politica nazionale, a prescindere dal consenso ricevuto. La Corte Costituzionale con la sentenza n. 35/2017 ha sbarrato per sempre questa strada. Abbandonato – obtorto collo – il sogno incostituzionale della democrazia d’investitura, i sarti legislatori hanno confezionato, attraverso il Rosatellum, un sistema elettorale che, pur non potendo conseguire alcun risultato pratico in termini di governabilità, risponde perfettamente all’esigenza dei principali partiti di sequestrare la rappresentanza parlamentare, impedendo che i cittadini elettori possano mettere becco nella scelta dei propri rappresentanti, che ancora una volta, come capitava col Porcellum, saranno nominati dai capi dei partiti e solo a questi dovranno rispondere.
Con il nuovo sistema circa due terzi dei seggi verranno attribuiti sulla base di liste bloccate, mentre per la quota eletta con il maggioritario, la minima possibilità di scelta insita nel collegio uninominale verrà annullata mediante il meccanismo del voto unico al candidato di collegio e alle liste collegate. La volontà degli elettori, inoltre, viene ulteriormente manipolata attraverso una formula che favorisce coalizioni di facciata destinate a sciogliersi dopo il voto, a scapito delle formazioni non coalizzate e della pari dignità dei cittadini elettori.
Tutti sanno che le nostre istituzioni democratiche non godono di buona salute. Tutti siamo scontenti della costituzione materiale, cioè dell’ordinamento politico effettivo, al punto da considerare nostri nemici i “politici” che ci dovrebbero rappresentare. La principale patologia che affligge la democrazia italiana è la crisi delle istituzioni rappresentative testimoniata, a tacer d’altro, dalla totale perdita di fiducia degli italiani nei partiti politici (3%) e nel Parlamento (8%). Questa disaffezione non deriva dal caso ma dal carattere oligarchico che ha assunto l’ordinamento politico. Un Parlamento addomesticato e mutilato nella rappresentatività e nella legittimazione sostanziale non ha più fornito, se non in misura marginale, canali di comunicazione efficaci con la società italiana e non costituisce più lo strumento attraverso il quale si dovrebbe esprimere – in via principale – la sovranità popolare.
Con il Rosatellum in sostanza non cambia niente rispetto alla situazione attuale che tanto disagio e disaffezione ha provocato nella generalità dei cittadini italiani. Verrà mantenuto in piedi un sistema politico oligarchico che vede la rappresentanza parlamentare completamente irresponsabile rispetto al corpo elettorale. Le domande di rinnovamento della politica sono state completamente ignorate e adesso ci apprestiamo ad eleggere un nuovo Parlamento, impermeabile, come i precedenti, al dialogo con la società civile.
Non è questa la democrazia che i padri costituenti avevano promesso al popolo italiano quando scrivevano che la sovranità spetta al popolo e che tutti i cittadini hanno diritto di concorrere a determinare la politica nazionale. Nella loro ingenuità pensavano che il popolo dovesse contare veramente qualcosa e dovesse essere artefice – attraverso la mediazione delle istituzioni rappresentative – del proprio destino.
Com’è triste l’Italia con i colori grigio autunnali del Rosatellum.
Com’è triste questo Paese che ha spento la passione politica di migliaia di giovani che con generosità si sono impegnati per respingere, attraverso il referendum del 4 dicembre 2016, la definitiva cristallizzazione dei malanni che hanno asfissiato la democrazia italiana, animati dalla speranza che lo spirito vivificatore della Costituzione avrebbe rinnovato la nostra vita collettiva di comunità politica organizzata in Stato.
Domenico Gallo è giudice presso la corte di Cassazione (Adista Segni Nuovi n° 37 del 20/10/2017)