domenica, Novembre 24, 2024

Colpa, pena e perdono: la prospettiva induista

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
Colpa, pena e perdono soggiacciono tutti a un principio di giustizia da cui si trae ispirazione o da cui si devia. Tale idea di giustizia costituisce l’ossatura dell’induismo come testimonia la sua definizione tradizionale: sanatana dharma. Dharma, tra i suoi molti significati, traduce anche “norma”, “ordine”. È la norma universale che sottende i fenomeni alla base dell’ordine cosmico, detto rtam; è l’intelligenza divina che sostiene la manifestazione nelle sue leggi naturali di ordine fisico, così come in quelle relazionali e etiche.

Il dharma ha un carattere multidimensionale; vi è un ordine generale e eterno che comprende quelle virtù sempre valide indipendentemente dal tempo o dal luogo, quali la nonviolenza, la verità, l’amore, la compassione, il principio del donare e di partecipazione alla vita. A questo dharma generale se ne affiancano numerosi altri specifici, relativi alla condizione che ciascun essere umano vive, al proprio ruolo nella società e alle proprie attitudini. In sintesi, il dharma costituisce il codice dei diritti e doveri di ciascuno; rappresenta la guida per l’azione, la discriminante fra il giusto e l’errato in ciascun comportamento.
È nel concetto di unità, di identità con tutto l’esistente, che sta la radice del bene e, al contrario, nel concetto di separazione che sta la radice del male, adharma. Il male nell’induismo non ha realtà ontologica, ma nasce dall’ignoranza (avidya) della vera natura di ogni essere, ed è dalla conoscenza della realtà che nasce la possibilità dell’emancipazione dal vincolo e della piena identità con il Divino.

Date queste premesse si evince che la condizione umana, finché vi è identificazione con l’ego, è soggetta a errore. Motivo per cui le Scritture e gli insegnamenti dei maestri sottolineano l’importanza di una giusta condotta (sadachara) e di una buona compagnia (satsangha).

Deviare da questi due “binari guida” comporta il rischio di sbagliare e inevitabilmente di soffrire o di far soffrire altri in un tempo più o meno breve.
Ciò si incardina sulla legge di causa-effetto, il principio di responsabilità dell’azione che include anche il libero arbitrio: ciò che mi accade è frutto delle mie azioni passate, ma è mia libertà l’atteggiamento con cui giocare le carte che la  vita mi ha messo in mano modificando così progressivamente il presente e il futuro.

Tenendo saldo il rispetto delle leggi dello Stato in cui ci si trova a vivere, il reato chiama in campo due fattori principali: la pena e il perdono. Nelle Scritture si menzionano diverse forme di espiazione, prayascitta; tra queste il pellegrinaggio ai luoghi sacri, il digiuno, la preghiera, rituali specifici, la detenzione, e altre.

In questa ottica è importante la sequenza del rendersi conto dello sbaglio o dispiacere per la sofferenza prodotta, per poi chiedere scusa (o riparare, per quanto possibile, in maniera diretta o indiretta) per produrre un cambiamento al fine di non ripetere più l’errore.
La trasformazione radicale dal peccato alla santità non è nuova nella storia delle religioni. Molti santi ebbero trascorsi di delinquenti o addirittura di assassini, eppure seppero da queste gravi colpe cogliere lo stimolo a cambiare radicalmente la propria vita e dirigerla verso Dio. Ne è un esempio eccelso il saggio Valmiki. Da ladro e assassino qual era si sottopose a un’austerità estrema, fino a purificare ogni suo errore, divenendo un grande saggio dall’animo puro e nobile.

Nell’uomo comune, se il pentimento è autentico, sarà lo stesso autore del reato a volersi purificare dalla sua azione scorretta e l’accettazione del carcere è un modo per incominciare a pagare il proprio debito. La sofferenza della privazione della libertà e dell’allontanamento dalla propria vita, dagli affetti e dalla comunità di appartenenza, se affrontata in modo consapevole, può trasformarsi in opportunità.
La pena ha e deve sempre mantenere il fine di educare o di rieducare, anche attraverso il lavoro, ai valori del dharma, della nonviolenza, i quali fra l’altro sono trasversali a tutte le religioni e anche ai non credenti. Il lavoro diviene anche un mezzo attraverso cui poter restituire, in senso lato, ciò che il colpevole ha “tolto” alla società.

Ovviamente è importante la creazione di una relazione umana, tra operatore carcerario e detenuto, fatta di rispetto, di capacità di entrare nel “linguaggio” della persona per condurla in questa presa di coscienza, restando attenti alle trappole del buonismo, del giustificazionismo, dell’attribuzione della “colpa” alla fantomatica società, in quanto – pur esistendo ovviamente condizioni di vita più o meno favorevoli – la responsabilità delle azioni è individuale e individuale ne è la soluzione, compresa la volontà di trarre giovamento dall’aiuto offerto al miglioramento di se stessi.

L’induismo poi ha a sua disposizione anche lo yoga; se approcciato nella sua autentica matrice filosofica e spirituale, offre un cammino di consapevolezza, di presenza mentale innanzitutto nel corpo e poi nel respiro, per orientare successivamente la psiche alla purificazione delle impressioni inconsce.
Affinché ciò possa avvenire è necessario che gli Istituti di detenzione abbiano sempre a cuore la dignità della persona; permettano di mostrare dei modelli di buon comportamento e attuino il principio di etica della cura così ben insegnato dal Mahatma Gandhi. Se la colpa fosse simile a una malattia, la medicina deve consistere di ascolto, fermezza, disciplina, compassione per la comune condizione di perfettibilità, ma soprattutto di perdono.

Lo stesso dicasi per le vittime e le loro famiglie. Il processo del perdono è un po’ più facile se si vede nel “carnefice” il percorso di cambiamento a cui abbiamo più sopra accennato, ma anche in questo caso è un cammino che richiede del tempo. I perdoni immediati da intervista televisiva sono poco credibili, a meno che il diretto interessato non sia un illuminato che ha già realizzato il senso della vita! Aver subìto una perdita ad opera della cattiva volontà altrui mette in gioco processi psicologici profondi: la propria sofferenza e quella delle persone amate, gli attaccamenti anche materiali, il senso della giustizia e dell’ingiustizia, le credenze spirituali. Il risentimento, intriso di dolore, di rabbia e di paura, è la reazione umanamente più naturale, ed è solo con un delicato lavoro di trasformazione che è possibile arrivare al perdono.
Talvolta, infatti, la consapevolezza del male inferto quindi della propria colpa da parte del detenuto costituisce la condanna più grande, perché se è vero che perdonare un altro può essere difficile, perdonare se stessi può risultare impossibile. La ferita, di chi è davvero pentito, resta come un solco indelebile nel cuore. Il perdono libera “vittima” e “carnefice” dal rancore, il quale fra l’altro penalizza entrambi.

Infine, anche per la vittima la sofferenza può trasformarsi in una preziosa opportunità di miglioramento di se stessi attraverso l’attribuzione di un senso positivo, per quanto doloroso e difficile, a un’esperienza negativa. Si può diventare più forti e più in grado di aiutare ad esempio chi ha vissuto vicende simili, accettando la propria storia e trasformandola in un’opportunità di crescita.
«Il perdono è una virtù; è sacrificio, è il Veda […]; il perdono è Dio stesso; è verità; […] è santità; è dal perdono che tutto questo universo è tenuto insieme». (Mahabharata, III.29).
Sundari Devi (Psicologa psicoterapeuta, membro della commissione Scuola e formazione dell’Unione induista italiana) in Confronti, 13 settembre 2018

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