mercoledì, Dicembre 18, 2024

Lectio Biblica: Esodo (incontro del 09 ottobre 2018)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

ESODO  שמות

“Divise il mar Rosso in due parti

perché il suo amore è per sempre.

In mezzo fece passare Israele,

perché il suo amore è per sempre.

Vi travolse il faraone e il suo esercito,

perché il suo amore è per sempre.”

(Sl 136,13-15)

Testi liberamente tratti da:

Fretheim T.E., Esodo, Torino, Claudiana, 2004;

Childs B.S., Esodo, Casale Monferrato, Piemme, 1995;

Barbaglio G., Il Dio della Bibbia, sintesi della relazione tenuta
Verbania Pallanza, 28-29 novembre, 1982;

Mazzinghi L., Storia d’Israele dalle origini al periodo romano, Bologna, EDB, 2007;

Terence E. Fretheim (Iowa, USA, 27 gennaio 1936). Ha insegnato per più di quarant’anni Antico Testamento al Luther Northwestern Theological Seminary di Saint Paul, Minnesota, USA. É membro della Catholic Biblical Association e della Society of Biblical Literature e ha pubblicato numerosi testi e articoli. Fretheim ha fatto parte anche delle Buddhist and Muslim Task Forces of the American Lutheran Church, è stato copresidente della Theological Consultation for the Evangelical Lutheran Church in America, è stato l’editore responsabile di AT presso il Journal of Biblical Literature.

Il titolo del libro

Il titolo di un libro, secondo la tradizione ebraica, è rappresentato dalle sue prime parole. Il nome “Esodo”, diventato tradizionale, deriva dalla cultura ellenistica e dalla traduzione greca dell’Antico Testamento: è un termine astratto che cerca di specificare il contenuto dell’opera e significa semplicemente “uscita” (Έξοδος//exodòs).

La tradizione ebraica, invece, utilizza un metodo che è simile a quello adoperato da noi per designare i documenti pontifici: le prime parole del testo diventano il titolo del libro.

L’Esodo inizia così:

“Questi sono i nomi dei figli di Israele entrati in Egitto con Giacobbe e arrivati ognuno con la sua famiglia (…)” (Es 1,1).

In ebraico l’inizio di questa frase suona: “We’elleh shemot…”; così il libro fu denominato “Shemot”, cioè “Nomi”.

É molto importante un titolo, perché è molto significativa quella parola che viene messa all’inizio per caratterizzare tutto il libro. Nella tradizione ebraica, dunque, il libro dell’Esodo è il libro dei Nomi. “Dare il nome” vuol dire nella mentalità biblica permettere di esistere, fare esistere; il nome è strettamente legato all’esserci, all’esser nato.

“Dare il nome” vuol dire conoscere la realtà, entrare in relazione con la realtà. Il libro dell’Esodo è il libro dei nomi, perché in esso gli elementi essenziali della fede di Israele trovano il loro nome.

L’inizio del libro: “Questi sono i nomi dei figli di Israele” corrisponde, in modo parallelo, ad uno schema che si trova spesso nel libro della Genesi ed è lo schema delle “Toledot”, cioè le generazioni, ovvero gli elenchi genealogici. Nel libro della Genesi, ogni volta che il narratore interviene con un elenco genealogico, lo fa perché sta passando ad un nuovo periodo storico.

Allora l’inizio dell’Esodo si presenta letterariamente come il passaggio ad una nuova fase, come dire: qui finisce la storia dei patriarchi, la preistoria, e inizia la storia del popolo, il popolo inizia a diventare tale.

Questi uomini dispersi stanno nascendo come comunità, stanno diventando una realtà.

La struttura del libro

Il libro dell’Esodo ha due poli:

  1. A) la liberazione dall’Egitto

  2. B) l’esperienza della montagna del Sinai.

Per arrivare in vista della terra promessa bisogna ricorrere al libro dei Numeri.

C’è da ricordare che il Pentateuco non narra l’ingresso nella terra promessa, anche se lo sguardo è sempre proteso verso la terra sognata, «terra di torrenti, di fiumi, di acque sotterranee» (Dt 8,7).

Il materiale del nostro libro, piuttosto diversificato, può essere suddiviso in sei sezioni:

  1. La storia di Israele in Egitto (1,1–15,21):

  • ▪ dalla Genesi all’Esodo (1,1-7)

  • ▪ l’oppressione e la schiavitù di Israele (1,8-22)

  • ▪ le vicende di Mosè e la sua vocazione di liberatore (2,1–7,7)

  • ▪ le dieci piaghe inflitte all’Egitto (7,8–10,29)

  • ▪ la morte dei primogeniti e la pasqua (11,1–13,16)

  • ▪ l’uscita dall’Egitto (13,17-15,21).

  1. Le tappe di Israele nel deserto (15,22–18,27).

  • L’alleanza nel deserto del Sinai (19,1–24,18):

  • ▪ la proposta di alleanza (19,1-25; 20,18-21)

  • ▪ i termini dell’alleanza: il decalogo (20,1-17)

  • ▪ il “Codice dell’alleanza” (20,22–23,19)

  • ▪ la conclusione dell’alleanza (23,20–24,18).

  1. Istruzioni sull’organizzazione del santuario e del culto (25,1–31,18).

  1. Il vitello d’oro e la rinnovazione dell’alleanza (32,1–34,35).

  1. La realizzazione delle istituzioni cultuali (35,1–40,38).

Il libro dell’Esodo ha una ricca dinamica interna: esso si muove dalla schiavitù al culto, dalla servitù di Israele verso il Faraone al suo legame con YHWH…

Più precisamente il libro si muove dalla costruzione di edifici per il Faraone con l’imposizione di lavori forzati, verso una proposta “diversa”, verso la gioiosa e obbediente offerta del popolo per la costruzione di un edificio da riservare al culto di Dio. Allora si può notare facilmente come il libro dell’Esodo avanza da una situazione di oppressione, in cui la presenza di Dio si nota con difficoltà, verso un Dio che riempie, dominandola, tutta la scena quando il tabernacolo viene completato.

Tra queste due esperienze, questi due “poli”, si svolge una lunga storia fatta di azioni ed esperienze: dalle piaghe alle mura d’acqua, al lungo viaggio nel deserto, alle montagne ardenti e ai vitelli d’oro…

Anche l’atteggiamento di Dio muta, i due mondi (divino e umano) vengono segnati dall’esperienza di questo lungo percorso e troveremo un Dio che non si era mai “compromesso”, mescolato, impegnato in tutto l’AT.

Infatti sebbene il centro di tutta la narrazione sia chiaramente la nascita del popolo di Israele, del “popolo eletto”, possiamo facilmente notare come il piano di Dio sia più grande, con un “respiro più ampio” e giunga ad abbracciare la creazione tutta… Il testo ce lo ricorda: “perché il mio nome sia divulgato per tutta la terra” (Es 9,16).

Esodo: il compito dello studio critico

Le diverse fonti/tradizioni che compongono il libro dell’Esodo

Il libro dell’Esodo è da sempre accompagnato da una vasta serie di commenti e commentari. In particolare quello di Brevard Childs (datato 1974 ma ristampato ancora oggi: Childs B.S., Esodo, Casale Monferrato, Piemme, 1995.) è stato sicuramente molto esaustivo. Tuttavia oggi gli studi più recenti si sono diretti su nuove piste, hanno intrapreso anche nuovi percorsi sia a livello di analisi della redazione che di analisi letteraria, donandoci nuove letture e possibilità interpretative.

Addentriamoci ora più nello specifico, in medias res

Per più di due secoli l’analisi delle fonti ha rappresentato l’approccio dominante per lo studio del Pentateuco e, di conseguenza, il libro dell’Esodo è stato analizzato come parte di questo ampio insieme letterario.

Ciò ha comportato che questo libro venga considerato un opera composita, formata da tre fonti principali che fanno riferimento a tre diversi nomi di Dio presenti nel testo:

J: La prima fonte è la tradizione Jahvista (nome di Dio: Yahweh o sacro tetragramma יהוה).

La tradizione Jahvista sarebbe originaria del X/IX secolo a.C. (periodo monarchico) e diffusa soprattutto nel Regno del Sud/Regno di Giuda con capitale Gerusalemme. Questa tradizione presenta l’uomo e il suo mondo con grande attenzione: alla concretezza e all’analisi dei conflitti dell’animo umano. Dio è visto molto vicino al suo popolo e in alcuni casi è quasi antropomorfizzato (quando ad esempio passeggia nel giardino dell’Eden). Non fa molto riferimento a materiali storico/giuridici e chiama “Sinai” il monte santo. Questo racconto copre la storia biblica fin dalle origini. Infatti questa tradizione è riscontrabile nella parte narrativa più antica del Pentateuco la quale deve la sua struttura all’antico credo d’Israele.

Perciò la tradizione Jahvista prende la tradizione orale d’Israele e disegna un’ampia immagine sviluppandone i temi. Essa è la prima a mettere per iscritto le antiche tradizioni orali del suo popolo.

E: La seconda è la tradizione Elohista (nome di Dio: Elohim)

La tradizione legata alla fonte Elohista si è formata, molto probabilmente, in epoca di poco successiva (parliamo VIII secolo a.C., quindi dopo la separazione tra i due regni) nel Regno del Nord/Regno di Israele con capitale Samaria. Nel proporre la sua visione teologica, questa fonte, presenta Dio sottolineandone la trascendenza: parla dal cielo, appare nei sogni, parla per mezzo di mediatori…

P: La terza è la tradizione Sacerdotale (P: dal tedesco “Priester” o “Priestercodex”)

Questa fonte dovrebbe raccogliere in origine testi molto antichi ma pesantemente rielaborati dopo (e durante) l’esilio babilonese (cioè dopo il 520-515 a.C.). Il tema centrale, il titolo è già un indizio!,  sono le norme cultuali e liturgiche (non a caso a questa tradizione fanno capo ampissime parti del libro del Levitico).

Ad esse va aggiunta una quarta fonte:

D: Elementi che fanno capo alla tradizione Deuteronomista (così chiamata perché prevalente nel libro del Deuteronomio)

L’origine di questa ultima tradizione viene solitamente collocata nel Regno del Sud (attorno al VII secolo a.C.). Essa ha come tema centrale la Legge di Dio che viene spiegata ed esaltata.

Esistono in fine dei testi non attribuibili a queste fonti, come ad esempio alcune tradizioni legali.

Vediamo allora facilmente come, secondo questa teoria, il processo di “costruzione/assemblaggio” di questo testo, durato mezzo millennio o più, è un processo di accrescimento con più fonti che vengono gradualmente amalgamate.

Oggi questo approccio è stato rivisto e anche criticato da studiosi e ricercatori. Infatti (mentre è assodato che il materiale letterario provenga da periodi storici ben diversi…) la natura, lo scopo e la datazione delle fonti desta più di un dubbio.

In merito, Terence E. Fretheim pone un punto di vista personale ma che ci può essere d’aiuto per “districarci” in questo discorso abbastanza complesso e difficile da sintetizzare.

Fretheim quando fa riferimento al libro dell’Esodo parla di una “coperta” o per meglio dire un “patchwork quilt”: una trapunta formata da tanti pezzi di tradizioni aggiunti in periodi diversi della storia di Israele, ma è anche un opera in se.

Nella sua versione originaria questo testo infatti doveva essere una narrazione abbastanza breve e concisa, databile nel periodo premonarchico (prima del 1000 a.C.). Questa narrazione venne rivista nel corso dei secoli, e le maggiori rielaborazioni possono essere identificate con le fonti J e E, che si rifacevano ad altri aspetti della storia non ancora integrati. A questo punto le le due versioni furono rielaborate nel coso dell’esilio da un redattore identificabile con la tradizione P (in questa prospettiva essa non sarebbe una fonte/tradizione indipendente!). Questo redattore sacerdotale infatti sembra potersi avvalere di una ampia gamma di fonti, antiche e più recenti, di tipo legale e cultuale (come abbiamo già detto). Egli impresse il proprio “stampo” sull’intera opera che copre buona parte del testo che oggi viene chiamata Tetrateuco (primi tre libri della Bibbia: Genesi, Esodo e Deuteronomio).

Nella nostra indagine andremo a concentrarci principalmente su questo “ultimo” stadio redazionale.

I diversi generi letterari che compongono il libro dell’Esodo

Una delle maggiori e ricorrenti considerazioni quando si affronta questo testo è l’esistenza e il rapporto tra due generi letterari:

Narrativo

Legale

L’intreccio di questi due generi infatti è una delle caratteristiche del testo che andremo ad affrontare, ma bisognerà poi capire quale è il significato di questo rapporto.

Per quanto riguarda il genere narrativo, una questione ostica del libro dell’Esodo è anche il linguaggio formale che viene usato.

Infatti se osserviamo il testo ci renderemo facilmente conto che identificare chiaramente le varie forme: la saga, la leggenda o il racconto popolare, è arduo e anche gli esegeti faticano a trovare punti di accordo. Nel testo sono contenuti perfino pezzi poetici (come Es 15 che abbiamo affrontato in precedenza).

Forse allora sarebbe utile cambiare “prospettiva” nella nostra indagine, concentrandoci e vedere il tutto come una “narrazione teologica” mettendo in evidenza come il testo sia una miscela di: Storia di Israele e Storia di Dio. Ciò ha lo scopo di scuotere il lettore nel cuore e nella volontà ma anche nella mente.

Questo “nuovo approccio letterario” si concentra sull’analisi letteraria più che sulla storia letteraria; sul testo in quanto oggetto letterario in se stesso, anziché sulla storia del testo prima della sua forma attuale. Il testo ha ora una sua vita propria e noi dobbiamo confrontarci con esso così come è!

Interessante notare poi come, tra le caratteristiche letterarie l’ironia goda di una particolare attenzione.

A livello di struttura è da notare come il racconto sia “interrotto” nel suo fluire da testi di transizione come interludi, sommari o anticipazioni. Questi elementi servono da cerniera tra le varie sezioni narrative del testo (come abbiamo già visto nella Genesi), ma ciascuno di essi “guarda” anche sia indietro che avanti ricordando ciò che precede e anticipando sviluppi futuri.

Storia e fede nel libro dell’Esodo

Innanzitutto bisogna avere ben presente che:

1) Il libro dell’Esodo non è una narrazione storica, almeno non nel senso moderno. La sua preoccupazione maggiore è rivolta a aspetti di natura teologica e kerygmatica. Ciò vuol dire che i redattori del materiale letterario erano, in tutti gli stadi di elaborazione, persone di fede che volevano dire la Parola di Dio ad altre persone di fede. In questo testo infatti noi ascoltiamo la viva voce della comunità di fede che era Israele.

2) Il testo non evita di trattare temi sociali o storici. Infatti esso è stato scritto tendo presenti i problemi e le possibilità di un uditorio specifico e formulato per rivolgersi a questo ambiente. L’autore (o gli autori) non ha perciò scritto in generale senza un destinatario particolare.

Ciò causa non poche difficoltà quando si parla di testi narrativi; infatti è più semplice comprendere i destinatari ad esempio nei testi profetici… Inoltre, visti i diversi livelli di redazione/rielaborazione fatti in tempi diversi, è facile comprendere come il “pubblico” di riferimento sia via via cambiato.

3) Abbiamo visto come sia molto probabile che la struttura base del libro dell’Esodo sia di origine esiliaca. Infatti nell’esperienza dell’esilio il popolo di Israele trovò una vicinanza agli antenati vissuti in terra d’Egitto, in particolare per quanto riguarda due difficoltà:

  1. a) Essere schiavo di grandi potenze in terra straniera;

  2. b) Soffrire una giusta condanna a causa della sua infedeltà verso Dio.

La comunità di fede dunque, si riconosce bisognosa sia di liberazione che di perdono.

4) I temi centrali attorno a cui si sviluppa il testo biblico sono: la legge, l’obbedienza, la presenza o l’assenza divina, luoghi e pratiche di culto.

Se ci pensiamo bene tutti temi “tipici” per un popolo che vive da deportato in terra straniera e deve mantenere una sua identità senza essere assimilato… di conseguenza una Parola di Dio rivolta nel passato può continuare ad avere il suo valore anche in altri tempi e contesti perché coinvolge a livello esistenziale.

5) Il mezzo attraverso il quale questa Parola di Dio viene trasmessa è una narrazione del passato di Israele.

La questione infatti non è quella di ricostruire una storia del passato ma di proporre il racconto di un popolo per il quale Dio ha speso se stesso, si è “messo in gioco” in modo sempre più radicale.

Ciò nonostante, l’interesse per quel che è veramente accaduto ha sempre coinvolto gli studiosi di tutte le epoche. Esistono però dei limiti che rendono arduo il compito:

  1. a) Dalla natura del materiale a disposizione;

  2. b) Nessuna fonte extrabiblica racconta i fatti del libro dell’Esodo.

Si tratta dunque di mettere assieme indizi di genere diverso per ricostruire la storia.

Un tentativo di inquadramento storico

Iniziamo con una teoria interessante, anche se resta tale. Sigmund Freud pubblicò nel 1939 il celebre saggio L’uomo Mosè e la religione monoteistica. In questo testo lo studioso viennese si confrontò, tra le altre cose, con la ricerca dell’origine storica della figura di Mosè:

Ma allora chi era Mosè secondo Sigmund Freud?

Per capirlo dobbiamo ritornare ai tempi del faraone Amenothep IV salito al trono dopo la morte di Thumtmose III, grande condottiero che aveva rafforzato militarmente il potere dell’Egitto su tutti i popoli confinanti. Il figlio Amenothep non era però un militare; il suo unico interesse era quello religioso ed in particolare l’adorazione di un unico dio: Aton, il sole -padre e madre di tutto quello che sta sulla terra e che abbraccia tutta l’umanità- Non è una sua invenzione, il concetto di logos era già presente un millennio prima nella religione egizia. Il logos (la parola) era la forma in cui l’intelligenza di Ptah, il dio degli architetti, si manifesta in tutte le cose ed in tutti gli esseri viventi: la novità consiste nel fatto che il giovane faraone per la prima volta nella storia impone un rigoroso monoteismo; il primo tentativo del genere nella storia mondiale. Con la fede in un unico dio, secondo Freud, nacque l’intolleranza religiosa, fino ad allora sconosciuta e che ritroveremo solamente 14 secoli dopo in tutta la sua virulenza. Il faraone monoteista fa distruggere i templi degli dei e perseguita con particolare durezza i seguaci del dio Amon. I templi furono chiusi e proibite le funzioni religiose soprattutto quelle in onore di Osiride e si impose l’adorazione esclusiva del dio Sole. Il giovane faraone cambia persino il suo nome in Akhenaton (=colui che è utile ad Aton) Il suo regno dura 17 anni, non molti, ma sufficienti a ridurre in pezzi l’Egitto. All’interno cresce la rabbia del popolo contro colui che gli aveva tolto Osiride, il dio che consolava ed aiutava i defunti. I sacerdoti di Amon, potenti e colti, cospiravano per toglierlo di mezzo. Le città al confine venivano saccheggiate, gli abitanti depredati ed uccisi ma il faraone non rispondeva alle loro richieste di aiuto. Contrario all’uso della forza permise che gli Hittiti invadessero, saccheggiassero e massacrassero le popolazioni di gran parte del Regno. Considerava pure irrilevante che Palestina e Siria uscissero dal controllo dell’Egitto, rispetto all’importanza di costruire templi in onore di Aton. Mentre scrive i suoi inni anche l’Asia esce dal controllo dell’Egitto. E quando il Sud è in preda all’anarchia lui fa costruire edifici e città in onore del dio Sole in tutto il Paese. Finalmente, dopo più di 16 anni di disinteresse per le cose di questo mondo, affida il potere dell’esercito ad Harmhab, un militare che cercherà di conquistarsi le simpatie dei sacerdoti e del popolo. Akhenaton muore nel 1358 a.C. e dopo Tutenkaton, che cambierà il nome in Tutenkamon, andrà al potere il militare Harmhab che cercherà di rimettere in piedi il Paese caduto in mano della corruzione dei funzionari, che nessuno aveva più controllato, e che avevano vessato in tutti i modi i più poveri ed i più deboli. Quindi fa distruggere i templi costruiti da Akhenaton, chiamato ormai -il criminale- anche se non ne proibisce la religione. E’ in questa situazione di profonda anarchia e disordine sociale che Freud colloca l’esodo degli Ebrei, i quali, guidati da Mosè, un alto funzionario di Akhenaton, caduto in disgrazia alla morte di costui, lasciano l’Egitto per trovare una loro vera patria. Meta della migrazione doveva essere la terra di Canaan dove avevano fatto irruzione le orde dei bellicosi Aramei, chiamati Habiru ed il cui nome fu poi trasferito agli Ebrei. Freud suggerisce pure che Mosè un grande personaggio egizio, abbia portato con se i suoi scribi egiziani, ossia i Leviti.

Il libro della Genesi termina con i capitoli 37-50, il “Ciclo di Giuseppe”, che hanno la funzione (tra le altre) di introdurre la narrazione dell’Esodo, riferendo la discesa degli Ebrei in Egitto. Tali capitoli si presentano a prima vista bene informati sull’Egitto (ad esempio le parole egiziane usate in Gen 41, 43.45), ma è molto difficile precisare la storicità di fatti che ci vengono tramandati con una prospettiva teologica ben precisa.

L’intero “Ciclo di Giuseppe” ha al suo centro i temi:

della fraternità, della paternità, del buon governo e, soprattutto, l’immagine di Dio che guida la storia rovesciando le prospettive umane. Si pensi a due testi celebri già affrontati:

5Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. 6Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. 7Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. 8Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il territorio d’Egitto.

(Gen 45,5-8)

 

24Poi Giuseppe disse ai fratelli: “Io sto per morire, ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questa terra, verso la terra che egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe”.

(Gen 50,24)

Il testo biblico testimonia comunque la presenza di alcune tribù israelitiche in Egitto, fatto che può rientrare in un tipo di migrazioni di popoli semiti, dovute spesso a carestie, a noi note dai papiri egiziani dell’epoca.

Secondo Es 1,8 l’oppressione degli Israeliti nasce da un cambio di dinastia, forse l’avvento al trono del grande faraone Ramsete II (1290-1224 a.C., secondo una delle possibili cronologie).

Le fonti egiziane (come abbiamo già fatto notare) non ci dicono nulla e la stessa tradizione biblica è divisa tra:

  1. a) Il ricordo dei lavori forzati (Es 1,8-14);

  2. b) il decreto di morte del faraone (Es 1,15-23).

Sia i motivi sia la vera natura dell’oppressione ci sfuggono, anche se i lavori forzati cui stranieri, schiavi, prigionieri di guerra erano obbligati in Egitto sono realtà ben note allo storico.

Anche il liberatore, Mosè, rimanda a un contesto egiziano: il nome stesso è in realtà un suffisso “mosis”, in egiziano “figlio di”, legato frequentemente al nome di qualche divinità, come ad esempio Tutmosis, “figlio del dio Tut”.

Es 2,10 dà del nome un’etimologia popolare, facendolo derivare dal verbo ebraico mashah, “trarre fuori”.

La nascita di Mosè è narrata secondo uno schema ben noto nell’antichità, che ritroviamo nella leggenda di Sargon I re di Akkad (2334-2280 a.C. ca.), anch’egli nato in segreto e salvato dalla madre in un cestello di giunchi abbandonato poi sul fiume. Questo parallelo fa pensare che al nucleo storico relativo al “personaggio-Mosè” si siano aggiunte tradizioni e riletture successive che ne rendono impossibile una ricostruzione storica precisa.

Mosè appare in ogni caso come una figura chiave del Pentateuco, anche se nel resto della Bibbia ebraica è poco ricordato. Oltre alla parte avuta nell’uscita dall’Egitto, egli appare comeil fondatore dello jahvismo, secondo il racconto di Es 3,13-15 e il mediatore tra Dio e il popolo, l’uomo attraverso il quale Dio dona la sua legge (Es 19-20).

Dall’Egitto al Sinai

1Il Signore disse a Mosè: “Vedi, io ti ho posto a far le veci di Dio di fronte al faraone: Aronne, tuo fratello, sarà il tuo profeta (…)”.

(Es 7, 1)

Il racconto dell’uscita dall’Egitto si apre con la celebre descrizione delle piaghe (Es 7,14 – 11,10). In un passato non troppo lontano molti esegeti si sono sforzati di darne una spiegazione scientifica, cercando di collegare le piaghe con fenomeni naturali più o meno comuni in Egitto. Questo tipo di “concordismo” è ormai superato; nel racconto delle piaghe infatti emergono almeno tre tradizioni diverse, discordanti tra loro già sul numero delle piaghe stesse…

Esse sono dieci nella redazione finale dell’Esodo, ma solo sette in quella jahvista, più antica, cinque in quella sacerdotale, mentre in Sal 78, 43-51 le piaghe sono nove e otto in Sal 105, 27-36.

Inoltre le piaghe sono narrate secondo uno schema letterario ben preciso che ne mette in risalto piuttosto il valore teologico di “segni”:

3Ma io indurirò il cuore del faraone e moltiplicherò i miei segni e i miei prodigi nella terra d’Egitto.

(Es 7,3)

Così, dietro il ricordo di un fatto che oggi non ci è più possibile precisare, si colloca l’intento teologico dei narratori, che scoprono in quei “segni” la presenza di Dio nella storia del popolo.

La stessa cosa avviene anche per il passaggio del Mar Rosso, che il testo biblico chiama in realtà “Mare delle Canne” e che non corrisponde al Mar Rosso che noi conosciamo; si è pensato alla zona dei Laghi Amari, dove oggi passa il canale di Suez, ma le opinioni su questo punto divergono. La redazione finale dell’Esodo, quella sacerdotale, ne fa un passaggio trionfale tra due muraglie d’acqua, mentre nella tradizione jahvista la fuga è favorita dal vento che prosciuga il guado; una terza versione (Es 14,24-25) parla degli Egiziani bloccati nei loro accampamenti e impossibilitati a inseguire gli Israeliti. Per risolvere queste contraddizioni R. De Vaux (+ 1971), dell’École Biblique di Gerusalemme, pensò a un doppio esodo, all’uscita dall’Egitto di due diversi gruppi di Israeliti, in momenti e con modalità differenti. Cronologicamente tutto ciò sarebbe avvenuto attorno al 1250 a.C.

L’altro avvenimento cardine dell’Esodo è l’arrivo al monte Sinai (o Oreb) ove è ambientata l’alleanza con il Signore (tutta la sezione che va da Es 19 a Nm 19). Tradizionalmente il Sinai è identificato con il Gebel-Musa, 2224 m di altezza, nella parte meridionale della penisola del Sinai, ove oggi si trova il celebre monastero di Santa Caterina. L’identificazione è tardiva, ed è tuttora messa in dubbio da diversi studiosi, senza che si sia potuti giungere a conclusioni soddisfacenti.

Il periodo passato dagli Israeliti nel deserto è descritto secondo la cifra convenzionale di 40 anni: in realtà si tratta di un tempo indefinito in cui i gruppi usciti dall’Egitto avrebbero iniziato a darsi una struttura e a esistere come popolo. Ciò ci rimanda a un problema ben più complesso, quello delle origini di Israele e della sua presenza in Canaan.

In conclusione: I tempi e i luoghi legati all’evento esodo, alle peregrinazioni nel deserto o alla rivelazione sul monte Sinai sono molto incerti. Infatti rappresentano tuttora occasione di dibattito e ricerca, ma sempre sulla base di poche evidenze. È probabile che i racconti di un certo numero di movimenti di più gruppi/clan tribali siano stati amalgamati per costruire un’unica narrazione.

Il risultato finale è che, in una prospettiva storiografica:

  1. a) Il libro dell’Esodo contiene materiali molto diversi;

  2. b) Un nucleo base della narrazione risale probabilmente nel periodo indicato dai testi;

  3. c) I testi hanno poi affrontato varie rielaborazioni in varie epoche;

  4. d) Nel processo di rielaborazione dei testi gli autori hanno usato liberamente la loro “immaginazione” (ad esempio quando hanno pensato ai dialoghi del testo);

  5. e) Questi redattori successivi avevano rispetto della storia e del testo e volevano rendere giustizia a ciò che avevano avuto in eredità;

  6. f) La liturgia di Israele ha avuto (probabilmente) un ruolo non indifferente: infatti il culto generò a sua volta materiali per questi racconti (ad esempio Es 12, 1-28);

Supporta Don Paolo Zambaldi con una donazione con PayPal.

Ultimi post

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

Dalla stessa categoria