Le parole sono pietre, scriveva Carlo Levi. Alla realtà  corrispondono, o dovrebbero. La realtà caricano del peso enorme che è il  significato. Qualche settimana fa, nel dibattito sui diritti dei  migranti, è finito sotto i riflettori della cronaca il passaggio di un  sussidiario della casa editrice Il Capitello presente sulle scrivanie di  qualche migliaio di bambini delle quarte e quinte elementari. Il testo definisce i profughi come «clandestini»,  che vivono nelle nostre città «in condizioni precarie, senza un lavoro e  una casa dignitosi». Motivo per cui, proseguiva il libro di testo, la  loro «integrazione è spesso così difficile». Il passaggio è stato  oggetto di pubblica condanna, come giusto (immaginiamo l’esito di simile  equivalenza sui più piccoli), l’editore ha promesso un intervento più o  meno immediato di rettifica.
Lo studio sulle case editrici
Niente di tutto ciò avviene, invece, per le donne.  Che – mentre il Paese si arrovella su come fermare l’ondata di stupri,  femminicidi, molestie – a partire dai libri di scuola sono ignorate, e  persino discriminate o addirittura calpestate. Senza che nessuno se ne  accorga, e senza rettifiche . «Ma come, scusi, io questi libri non li ho  mai visti…», esordisce sempre qualche insegnante durante i corsi di  formazione tenuti da Irene Biemmi, pedagogista, ricercatrice e  docente di Pedagogia sociale presso il Dipartimento di Scienze della  formazione e psicologia dell’Università di Firenze. Biemmi è autrice di uno studio dirompente, realizzato nel 2010 e pubblicato nel libro Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari di Rosenberg & Sellier (una riedizione sta per essere affidata alle  stampe con la prefazione di Dacia Maraini) condotto su un campione di  dieci libri di lettura della classe quarta elementare di alcune delle maggiori case editrici italiane: De Agostini, Nicola Milano, Piccoli, Giunti, Elmedi, La Scuola, Piemme, Raffaello e infine proprio Il Capitello. Tutti intrisi di stereotipi sessisti, appunto. Testi cambiati, dal 2010 ad oggi? Tutt’altro, visto che una seconda ricerca condotta appena due anni fa sulla falsariga della prima, stavolta dall’Università di Catania (Corsini e Scerri gli autori), ha riscontrato che la situazione non solo non è cambiata, ma è addirittura peggiorata.
Principesse e mamme (soltanto)
Cosa raccontano, delle  donne, i libri di testo su cui studiano le giovani generazioni? Che sono  in minoranza quantitativa innanzitutto: è un mondo di uomini (o di  bambini) quello dei sussidiari, dove dati alla mano i protagonisti delle  storie sono per quasi il 60% maschili contro il 37% di femmine.  «Significa che mediamente per 10 donne rappresentate compaiono 16  uomini, con picchi del doppio o addirittura più del doppio nei libri di  alcune case editrici». Il caso più clamoroso? Quello di Raffaello, in  cui il rapporto tra i due sessi è pari addirittura a 3,3: per ogni femmina, cioè, sono raffigurati tre maschi.  Altro che “quote rosa”. E in un mondo quantitativamente abitato da  maschi (pensare che nella realtà le cose stanno esattamente al rovescio)  il passaggio al giudizio qualitativo è brevissimo: perché non si parla,  delle donne? «“Forse perché non c’è molto da dire”, rispondono a  volte i bambini, ridendo, nei laboratori che teniamo sulla parità di  genere. Ed è significativo», continua Biemmi. La sua ricerca,  d’altronde, mette in luce un altro elemento sconfortante: mentre agli  uomini, nei libri di testo, vengono attribuite ben 80 professioni  diverse (tra i mestieri maschili più ricorrenti: cavaliere, re,  capitano, medico, pittore, poeta, esploratore, scienziato, marinaio,  sindaco) alle donne ne toccano appena 23 (esauriti in larga parte da mamma e maestra, e poi da strega, fata, principessa, commessa e cameriera). 
Ancora peggio quando si entra nel merito dell’aggettivazione  attribuita ai due generi: gli uomini sono (e i termini, si badi bene,  sono attribuiti esclusivamente ai maschi in tutti i libri presi  in esame dalla ricerca) audaci, valorosi, coraggiosi, seri, ambiziosi,  autoritari, duri, bruti, impudenti. Le femmine? In ordine di percentuale  più rappresentata: antipatiche, pettegole, invidiose, vanitose,  smorfiose, affettuose, apprensive, premurose, buone, pazienti  servizievoli, docili, carine. Come dire (e come insegnare): il mondo maschile è forte, persino violento, quello femminile debole e superficiale.  «Non serve un esperto per capire che impatto possono avere questi  stereotipi, spesso presentati in modo del tutto acritico, sui nostri  bambini – spiega Biemmi –. E non mi riferisco solo alle femmine, fin  dalla tenera età incasellate nei pochi ruoli e atteggiamenti che per  altro nulla c’entrano con quelli presenti nella realtà che le circonda,  dove le donne (e le mamme anche) lavorano e non cucinano soltanto. Immaginiamo il peso di siffatto modello sui maschi, costretti a corrispondere alle aspettative di un mondo che li esige  protagonisti perfetti e brutali, se necessario». Frustrazione, ansia,  incapacità di relazionarsi con donne diverse da quelle che esistono  nella loro mente: drammaticamente, si tratta dell’identikit dei troppi  (e sempre più giovani) uomini violenti.
Le direttive europee e il “bollino di parità”
Pensare che dal 1998 anche in Italia esiste “Polite”, un progetto europeo di autoregolamentazione per l’editoria scolastica nato  sulla scia della Conferenza mondiale sulle donne di Pechino del 1995,  con l’obiettivo di promuovere la parità di genere nei libri di testo. A  sottoscriverlo è stata l’Associazione italiana editori (Aie) e il  rispetto delle norme in esso contenute prevede l’applicazione di un “bollino di qualità” alle pubblicazioni.  «La beffa è che nonostante la parità di genere non sia nemmeno  garantita dal punto di vista quantitativo nei libri di testo – osserva  Biemmi –, molti di quelli presi in esame dalla mia ricerca e da quella  più recente di Catania di quel bollino fanno bella mostra». Il motivo? Il bollino ce lo si autoassegna,  visto che nel nostro Paese – a differenza di quello che avviene in  Francia, per esempio – non esiste alcun controllo o supervisione da  parte di un ente terzo (il ministero dell’Istruzione o un Osservatorio  dedicato) sui libri di testo. Di più: del “Polite” non c’è traccia  istituzionale online, nei domini italiani, tranne che in una breve  sottosezione del sito dell’Aie. Risultato: il sessismo continua a  imperare indisturbato coi suoi stereotipi là dove è più in grado di  esercitare il suo potere culturale. Sui bambini. E mentre la riforma  della “Buona scuola” si preoccupa di formare gli insegnanti a una (non  meglio specificata) «cultura di genere», nessuno pensa alla formazione degli editori e degli autori dei libri di testo sulla parità fra i generi.
«La grande sfida dei prossimi anni è allora questa: che anche un solo,  grande editore per la scolastica – auspica Biemmi – cominci a investire  sistematicamente su questo tema». Basterebbe guardare alla letteratura d’infanzia (0-6 anni),  che per assurdo nel nostro Paese – e per una volta al passo col resto  d’Europa – sulle pari opportunità delle future generazioni sta compiendo  passi da gigante, capofila i progetti innovativi di Settenove e di Giralangolo con la collana “Sottosopra”, ma anche alcuni esperimenti di San Paolo e Giunti. Leggere per credere.
(Viviana Daloiso, Avvenire, 21 novembre 2017)  
