mercoledì, Novembre 27, 2024

Il cammino del Pride visto con gli occhi di un cristiano transgender (Louis Mitchell)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Ho riflettuto molto sul Pride e sul mio rapporto con esso. Non ne ricordo nessuno prima della mia guarigione. I primi anni dopo la mia  disintossicazione li ho trascorsi facendo il volontario per il Rainbow Sound. È stato bello avere uno scopo e qualcosa che non mi spingeva più a  bere o a drogarmi

Come la maggior parte della gente, non avevo idea della storia di Stonewall o delle ribellioni (delle persone LGBT) che l’avevano preceduta. 

Per me il Pride era una festa! C’erano lesbiche in bicicletta, uomini e donne vestite di pelle. Forse c’erano anche persone trans, ma io non sapevo nulla sulla transessualità. 

Il pride che piu ricordo è stato quello in cui ho partecipato alla Dyke March. C’era una folla incredibile e fi  un’opportunità incredibile per festeggiare con tante donne che mi hanno tenuta in vita in tutti questi anni! Mi hanno insegnato tante cose, mi hanno amato, hanno lottato con me, mi hanno fatto da guida, sono state le mie ancore quando volevo solo morire.

Davanti a loro, un pensiero continuava a risuonare nella mia testa. Stavo correndo il rischio di rimanere una donna nera e mascolina perché avevo troppa paura di fare la transizione. 

A quel punto sapevo di essere un uomo. Sapevo di voler vivere liberamente quello che sono. Ma non volevo nemmeno abbandonare la comunità lesbica che amavo così tanto. Quel momento sul palco mi ha cambiato tutto. Non ero più solo un codardo, ero anche un ladro! Ho deciso lì per lì che dovevo smettere di prendere dello spazio nella comunità femminile.

Per quanto conosca le rivolte di Compton, Cooper, Dewey e le altre che hanno preceduto Stonewall, la Dyke March è ancora la cosa che mi torna in mente ogni anno. È stata la mia ribellione, la mia rivolta, il mio passo verso l’emancipazione nella verità. 

È successo 20 anni fa. Ho perso alcuni amici della comunità lesbica e ne ho mantenuti altri. La mia transizione è stata piuttosto agrodolce all’inizio. Sono grato a coloro che mi sono rimasti vicino e ho compassione per molti di quelli che non sono riusciti a superare il fatto di vedere in me il volto del maschio oppressore. 

Nei decenni trascorsi ho visto la nostra “comunità” LGBT+ per quello che è: un gruppo di sottocomunità che cercano di sopravvivere spesso calpestandosi a vicenda. 

Continuo a lavorare perchè un giorno ognuno di noi sia al sicuro e abbia i propri bisogni soddisfatti. Prego e mi impegno per il giorno in cui tutti coloro che si sentono ai margini sentano che, coloro che hanno più privilegi, si stanno preoccupano di loro e del loro benessere.

Che questo accada nella nostra “comunità” può essere difficile: celebriamo il matrimonio egualitario e al tempo stesso piangiamo l’aumento degli omicidi di persone trans, spesso donne di colore. 

Ricordo Ellen, Neil Patrick, Caitlyn, Chaz, LaVerne, Janet, Silas, Angelica, Tiq, Kylar, Lourdes, Kortney e la lista continua di chi è stato ucciso continua a crescere. Sono grato per il loro impegno e doni che hanno offerto alla comunità. Ma ci sono anche tanti altri di cui forse non conosceremo mai il nome: quelli che scelgono di vivere in maniera poco visibile e che nell’ombra  sotto il radar per sopravvivere. 

Siamo genitori e nonni, figli, fratelli e sorelle. Siamo rappresentati in ogni segmento della popolazione. Le nostre idee di orgoglio sono varie e talvolta in conflitto tra loro. 

Quindi, nel 2018, mi impegno nuovamente a essere presente per coloro che si trovano a ogni livello, in qualsiasi modo possibile. Non perché io sia così speciale, ma perché qualcuno ha fatto in modo di creare una strada per me.

Testimonianza di Louis Mitchell* pubblicata sul sito Transfaith.info (Stati Uniti), liberamente tradotta da Innocenzo Pontillo

*Louis Mitchell è direttore esecutivo di Transfaith.

Testo originale: Pride and Community

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