Giugno è il Pride Month con parate piene di colori e rivendicazioni che si svolgono in tutte le città italiane: ecco perché le critiche sono insensate
Nella notte fra il 27 e il 28 giugno 1969 la polizia fece irruzione in un locale del Greenwich Village di New York con la scusa di controllare la licenza per gli alcolici, ma gli avventori vennero ben presto intimiditi e allontanati con violenza. Perché? Perché erano per lo più giovani omosessuali e travestiti, persone insomma considerate fuori legge. Ma quella notte qualcuno reagì, qualcuno fece resistenza, le persone accorsero anche da fuori per contrastare gli abusi delle forze dell’ordine. Quel locale si chiamava Stonewall Inn e quella notte iniziò il movimento per i diritti lgbt+, tanto che a tutt’oggi giugno è il cosiddetto Pride Month (a Milano sarà festeggiato nella settimana tra 22 giugno e 1° luglio, con la media partnership di Wired).
Pride nel senso di orgoglio perché ciò che fece quella notte newyorkese fu proprio dare una carica di consapevolezza (e anche di rabbia) a persone che, prima d’allora, erano troppo spaventate per uscire di casa, figurarsi per protestare assieme. Invece, come in ogni caso, l’unione fa la forza e là fuori ci sarà sempre qualcuno simile a te, con i tuoi stessi problemi e i tuoi stessi obiettivi. Proprio dallo stare insieme nascono le parate del Pride, che in queste settimane estive ricordano quegli avvenimenti di lacerante e inedita protesta sublimandoli in eventi colorati, festosi, di aggregazione e riflessione, invadendo (ovviamente pacificamente) le città del mondo con un’ondata arcobaleno.
Anche in Italia, dopo decenni di manifestazioni semiclandestine e spesso ostacolate dalle autorità pubbliche, i Pride stanno diventando un’occasione sempre più pubblica e partecipata. Da fine maggio ai giorni scorsi parate sono già avvenute a Bergamo, Salerno, Novara, Roma, Trento, Pavia, Torino, Varese, Caserta, Mantova, Siracusa, Genova, Barletta. E nelle prossime settimanesi terranno anche a Catania (23 giugno), Perugia, Pompei, Padova e Milano(30 giugno), Cagliari, Bologna, Alba (7 luglio) e così via fino a Palermo in settembre. Il numero e la partecipazione a questi eventi dà in qualche modo l’immagine di un assestamento positivo della società nei confronti della comunità lgbt+, mentre in realtà i Pride stessi servono per tenere il punto sui fragili traguardi raggiunti (citofonare ministro Fontana) e sono ancora motivo di grande scontro ideologico.
Uno degli argomenti più diffusi per attaccare queste iniziative e quindi per delegittimare l’intera comunità è che i Pride appaiono come carnevalate. Perché ci sono le drag queen, i maschi seminudi, le donne che si baciano, i transessuali appariscenti, i carri con la musica a palla, i costumi glitterati e così via. “Non sarebbero più credibili a sfilare in giacca e cravatta?” obiettano i più, dimenticando che le persone lgbt+ sfilano tutti i giorni in giacca e cravatta, o comunque in abiti considerati normali: negli uffici in cui vengono discriminati, nelle aule del parlamento in cui le loro istanze ci mettono decenni per essere ascoltate, sulle strade del mondo su cui vengono cacciati quando le famiglie li rinnegano, quando uno di loro viene deriso, pestato o massacrato in atti di omofobia che per la legge italiana ancora non esiste. La giacca e la cravatta (fra l’altro retaggio di una società pervicacemente patriarcale) non protegge né identifica.
Il Pride invece è un momento politicamente ed esteticamente a sé: rivendica un’identità forte, visibile, unitaria e inclusiva nel suo essere polimorfa. Il Pride è una riaffermazione di un essere diversi dagli altri e al contempo pronti ad accettare qualsiasi modo di essere. Per farlo l’unica arma è la visibilità, quella più spinta, eccessiva, colorata. In effetti il Pride è un carnevale ma non nell’accezione negativa dei suoi detrattori ma nel senso etimologico e medievale per cui si sospendono per qualche ora le convenzioni (ma non quelle morali, assolutamente) per un momento di svago che è anche una potente riaffermazione identitaria e politica. Chiedereste mai alle femministe di sfilare in abiti monacali perché altrimenti la loro vistosità ne minerebbe l’autorevolezza? O di far protestare solo i poliziotti mingherlini perché gli altri sembrerebbero troppo aggressivi?
Inutile nasconderlo: le persone lgbt+ sono una minoranza che va rispettata e a cui vanno riconosciuti dei diritti, ma non è scritto da nessuna parte che questa minoranza per avere quei diritti sia costretta auniformarsi all’estetica e all’imposizione della maggioranza. Lo stesso si può rispondere dell’obiezione “Allora facciamo anche un Etero Pride”, come se il mondo tutto non fosse già un gigantesco Etero Pridedi per sé. Dice benissimo Natalia Aspesi quando afferma che il fastidio nei confronti dei Pride è generato più che altro dal non riuscire ad accettare “l’idea che gli omosessuali non vivano nella vergogna e nella sofferenza, defilati e emarginati, ma siano talvolta allegrissimi”. In altre parole: il Pride ha senso proprio in quanto colorato ed eccessivo perché la comunità lgbt+ non deve chiedere il permesso agli etero di sfilare, non deve uniformarsi al loro stile per essere accettata, non deve chinare la testa per accondiscendenza e magari grama gratitudine, non deve accettare di essere invisibile pur di esistere. Questo è orgoglio.
Le critiche più dolorose, comunque, vengono anche da una parte della comunità stessa: sono molti gli individui, spesso soprattutto maschi omosessuali, che prendono le distanze dai Pride perché “non vedete che continuate ad alimentare gli stereotipi, non ci accetteranno mai così“. Basterà bollare queste esternazioni con una bella diagnosi di omofobia interiorizzata, fra l’altro immemore dei sacrifici di chi è venuto prima di noi: “La strada su cui adesso camminate con quell’aria da spacconi è stata spianata da quelle checche e quei feticisti leather di cui adesso vi lamentate mentre vi allenate a essere il più maschi che potete“, ha scritto giustamente l’attivista Joe Jervis.
Chi non si accetta pienamente per quel che è cercherà allo stremo l’accettazione della maggioranza credendo che aderire ai suoi canoni sia l’unico modo per sentirsi meno diverso, meno discriminato, meno sbagliato. Sbagliato semmai è questo principio, in quanto l’assimilazione è sempre iterazione di unasocietà oppressiva. Perché invece non rifugiarsi nell’esatto contrario: la libertà? I Pride, in fondo, sono proprio questo: un momento di libertà, e ancora più di liberazione.
Una sfilata, legittimata perché avviene nel bel mezzo della città, in cui qualsiasi sia la tua identità (lesbica, gay, trans, drag, asessuale, bisessuale, ma anche etero, poliamoroso, pastafariano, di colore, femminista ecc.) troverai uno spazio in cui camminare, un gruppo di persone tue simili in cui essere accolto. Perché libertà è inclusione. Molti trattati storici sottolineano come per il successo del movimento lgbt+ sia stato fondamentale l’apporto delle femministe, ad esempio; ora, viceversa, il Pride (che da anni – segnatevelo – non è più Gay Pride, per abbattere ogni barriera) si fa momento di aggregazione per tutte le istanze minoritarie.
Nessun etero, nessuna famiglia, nessuno straniero, nessuna persona verrà mai esclusa da un Pride, perché sfilare insieme, tutti insieme, fa sentire più liberi e soprattutto fa sentire più forti. Vale ancora di più in un momento storico come questo, in cui forze politiche dominanti stanno cercando di far passare la via della separazione, dell’odio e dell’oscurantismo. E se serviranno un po’ di glitter, delle piume di struzzo o dei tacchi alti per rendere più chiaro il messaggio di vicinanza e inclusione, male non farà.
(Paolo Armelli, Wired.it, 22 giugno 2018)