Ha senso pregare un Dio che non è onnipotente?
E’ ormai evidente per tutti “gli uomini di buona volontà”, che è assolutamente necessario ridefinire l’immagine di Dio.
Sarà un cammino lungo e difficile, un passaggio traumatico, esigente, adatto a una fede “adulta”.
La libertà di coscienza necessaria, così come la conseguente libertà di discussione e interpretazione della Parola alla luce dei cambiamenti avvenuti nel mondo, verrà vista, da molti pastori e da molti credenti, più come un attentato alla fede, che come un arricchimento e un modo autentico e coraggioso di “salvare” dall’insignificanza, il messaggio contenuto nell’evangelo.
Ma è un cammino necessario verso la “verità”.
Il cristianesimo, da quando è diventato religione, ha fondato la sua dottrina su un di Dio descritto come l’Onnipotente, l’Onnisciente, il Padre, il Re, il Signore e padrone dell’universo.
Un Dio che, dall’alto dei cieli, muove il mondo secondo un suo misterioso disegno, punisce e salva, travolge e crea… e dunque va implorato, adorato, placato.
Un Dio così concepito esige un culto, un tempio, un rito. Esige una costruzione dogmatica, una unità d’intenti e di pensiero, una casta sacerdotale mediatrice insindacabile tra cielo e terra.
Gesù stesso, figlio di “quel” Dio, è diventato un “oggetto religioso”, una vittima, un agnello sacrificale il cui sangue versato è stato necessario per lavare per sempre la colpa “originaria”, e cioè la presunzione della creatura di essere libera, padrona della sua vita e delle sue scelte.
Per secoli l’uomo, impaurito, solo, scientificamente “ignorante”, travolto dall’ansia generata dalla coscienza della morte, ha trovato conforto in “quel” Dio, in quella declinazione “patriarcale della fede”, in quella visione del mondo.
Ha pregato chiedendo interventi miracolosi, ha creduto nella potenza delle reliquie, delle statue benedette, delle processioni e dei rosari, delle novene e delle litanie, ha chiamato santi a intercessori, ha implorato benedizioni e indulgenze.
Ora, però, ci si rende conto, con molta chiarezza, che quella è stata solo una tappa, per quanto ricca e potente, dell’evoluzione della spiritualità umana.
Lo sviluppo straordinario della scienza, l’affermarsi del concetto di libertà e di diritto, le rivoluzioni proletarie, il femminismo, hanno spinto progressivamente molti credenti a riconoscere che il loro modo di dire e concepire Dio, non poteva più essere compreso, né accettato dall’uomo moderno. Ne è seguito un abbandono massiccio della pratica religiosa, se non una vera e propria diffusa e drammatica perdita della fede.
E’ diventato necessario dunque per il cristiano, che ha a cuore il messaggio di salvezza predicato da Gesù, uscire dal recinto del tempio per guardare in faccia il mondo come se “quel” Dio- non- ci fosse, quel Dio definito da Bonhoeffer “un Dio tappabuchi”, per comprendere il linguaggio, la vita, i bisogni di un uomo diventato ormai “planetario”.
Spesso, in questo passaggio, ci assale l’angoscia e lo smarrimento tipico dell’adolescente che per liberarsi dal padre, deve in qualche modo “ucciderlo”, lacerando un rapporto, che se mantenuto nell’età adulta, avrebbe effetti devastanti in termini di autonomia ,di libertà, di responsabilità. Ed è evidente che ci vengono improvvisamente a mancare riferimenti importanti, abitudini e sicurezze.
La preghiera ad esempio. Se Dio non è più nell’alto dei cieli, se non è più concepito come l’Onnipotente ha ancora senso invocarlo? Chi ci ascolterà?
La preghiera è indubbiamente un bisogno profondo dello spirito. Nasce dalla solitudine, dalla precarietà creaturale, dal bisogno di certezze. E’ un gesto primordiale.
Ciò non toglie che necessiti di purificazione, di approfondimento, di una rilettura alla luce di una diversa comprensione della presenza di Dio nell’universo.
Deve innanzitutto essere rimodulata sul Dio di Gesù, un Dio impotente, un Dio crocifisso che comprende e ama, un Dio inclusivo, un Dio di tutti. Un Dio che non ha bisogno di essere “amato”, ma di essere “ascoltato”…
Pregare è allora un immergersi in Lui, in un Dio che “è” semplicemente, senza attributi, senza predicati. Un Dio che è, non un Dio “che fa”. Pregare è percepire il suo amore presente nell’universo, nella sua bellezza, nelle sue leggi, nel suo struggente mistero.
Pregare è anche, se non soprattutto, riconoscersi responsabili “dell’altro”, vederne il volto, assumerne il destino, amarlo senza pretese di dominio, vivere capaci di non rispondere al male. Infatti come dice Levinas “… nel semplice incontro di un uomo con l’altro si gioca l’essenziale, l’Assoluto: nella manifestazione, nell’ epifania del volto dell’ altro, scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’altro. E l’Assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo. Alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto”.
Pregare è infine “agire”. Pregare è cambiare rotta. Pregare è comprendere le verità feriali. Quelle con la lettera minuscola. Quelle che sono incise nella carne dell’uomo.
Pregare è interrogarsi sull’evangelo. Chiedersi se quello che facciamo è sequela, è un “mettere in pratica”… o se è semplicemente un esercizio “religioso” alienante, nel quale si implora Dio per se stessi e si crede nel miracolo risolutore del male, senza necessità di corresponsabilità, di rischio, di amore.
Pregare è dispiegamento dello spirito in tutte le sue accezioni…
“La preghiera, l’arte e i lavori di ricerca scientifica sono tre lingue della stessa fiamma. Si vogliono superare le possibilità che vengono concesse momentaneamente alla volontà, porsi al di sopra del nostro minuscolo io. L’arte e la preghiera sono solo mani tese nel buio. Si chiede l’elemosina per donare la propria persona.”
“E la scienza?”
“Protende la stessa mano di mendicante della preghiera. Ci si getta nel buio arco teso tra il passato e il divenire, per adagiare l’essere nella culla del minuscolo io. Questo è ciò che fanno la scienza ,l’arte e la preghiera. Per questo calarsi in se stessi non ha il significato di una discesa nell’ inconscio, ma di un innalzamento alla superficie chiara della consapevolezza di ciò che è intuito solo in modo confuso.”
G.Janouch “Conversazioni con Kafka”, 1991. Guanda editore, pag 133.
don Paolo Zambaldi