lunedì, Novembre 18, 2024

Missione al pub/Mission am Kneipentresen (Christian Bauer)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Probabilmente non sono molti gli ordini religiosi che sono stati fondati in un pub. Tuttavia, almeno nel caso dell’Ordine dei Predicatori (comunemente noto come Domenicani), è successo proprio così. Il racconto della sua fondazione porta direttamente al bancone del pub e ad un oste “eretico” di Tolosa. Infatti la leggenda vuole che, proprio in quel luogo così singolare, San Domenico abbia convertito il cataro (“eretico”) nel corso di una sola notte. Come avrebbe fatto? Non con “fiamme e spada”, ma con il potere persuasivo della parola. Quello che di solito non viene raccontato in questa storia, però, è la sua seconda parte (teologicamente molto avvincente!): infatti da quel giorno Domenico condusse una vita da predicatore itinerante e non avrebbe più annunciato/testimoniato la fede cristiana dall’alto di un cavallo (“equester”) come erano soliti fare i legati pontifici, ma ponendosi allo stesso piano dei suoi interlocutori (in tedesco “auf Augenhöhe“), cioè a piedi (“pedester”). In concreto vivendo come gli “eretici”, insegnando come la Chiesa sa fare. Si realizzò così una doppia conversione: l’oste si avvicinò alla fede della Chiesa e Domenico alla vita di cui parla il Vangelo. Perché la missione non è mai una strada a senso unico!

Rimanere aperti al cambiamento


In un’intervista recente, Gerard F. Timoner (Eletto 87° successore di S. Domenico nel Capitolo Generale di Biên Hòa, Vietnam il 13 luglio 2019 e originario delle Filippine) ha espresso meravigliosamente questo concetto. Egli contrasta radicalmente una concezione coloniale-identitaria della missione. Questo modalità “missionario-coloniale” mira principalmente ad espandere il proprio domino territoriale, rimanendo però sempre uguale a se stessa, immutata e immutabile. Il domenicano filippino invece propone un cambiamento di prospettiva, verso una comprensione “esplorativa-alteritaria” della missione nel mondo:

“Il mio augurio a tutti coloro che si mettono in cammino è di rimanere aperti al cambiamento. […] Il nostro fondatore, per esempio, aveva iniziato una carriera di successo nella Chiesa quando qualcosa lo cambiò profondamente […]. Non sappiamo cosa sia stato, ma da quel momento in poi volle essere chiamato solo Fra Domenico. Forse a questo contribuì la leggendaria conversazione notturna con un locandiere. Forse possiamo diventare più attenti e “permetterci” […] di lasciarci cambiare/trasformare dalle persone che incontriamo e che possono essere anche molto diverse da noi. E che esse potrebbero cambiare anche grazie a noi. Se “predicare” significa incontrare le persone guardandosi negli occhi, allora non sono solo gli ascoltatori a cambiare. Nel nostro dialogo con il mondo, percepiamo come noi stessi veniamo cambiati e chi ci sta cambiando?”.

La seguente “Lettera a un novizio” si rivolge a tutte le sorelle, i fratelli e i laici dell’Ordine dei Predicatori per quanto riguarda la missione domenicana nel mondo:

“Caro fratello, non molto tempo fa hai bussato alla porta di uno dei nostri conventi […]. Sei venuto pieno di aspettative e di speranze: con la tua domanda su Dio, la ricerca del tuo posto nel mondo, il tuo desiderio di autorealizzazione e il tuo desiderio di trovare un luogo che ti permetta di vivere pienamente. […] Cosa può offrirvi l’Ordine dei Predicatori se è rimasto fedele alla sua vocazione originaria? Innanzitutto, una comunità di fratelli che ascoltano la Parola di Dio e la promessa del suo Regno e che ascoltano con altrettanta attenzione i loro simili che sono alla ricerca anche loro di questo Regno. Questo ascolto avviene nella preghiera, nell’incontro e nel dialogo con le persone, nella riflessione e nello studio. […] Una missione difficile ma stimolante: dovete annunciare il Vangelo in modo credibile attraverso […] l’esistenza […]. Una vita piuttosto scomoda! È vero. Ma non siete soli. Vivete in una comunità che prega, cerca, riflette, lotta e condivide con voi. […] Ci vuole una vita intera per imparare a fare proprio questo stile di vita; una vita intera per diventare domenicani e molto di più”.

Contemplazione del (e nel!) mondo

Solo pochi sanno che anche io faccio parte di questa comunità come laico (“Terzo Ordine”). Tutto è iniziato quando, a un certo punto dei miei studi teologici, ho scoperto che molti dei teologi che mi affascinavano avevano l’abbreviazione OP (“Ordo praedicatorum”) dopo il loro nome: M.-Dominique Chenu, Edward Schillebeeckx, Gustavo Gutiérrez. Dopo la laurea, ero sicuro che sarei andato a Berlino per contribuire alla creazione di una start-up teologica (= Institut M.-Dominique Chenu) nell’allora ancora “selvaggia” zona est della città. La domanda chiave che mi motivava era: cosa succede alla teologia quando viene vissuta in un contesto sociale fortemente secolarizzato?

È proprio lì che ho celebrato il mio ingresso nel Terz’Ordine domenicano nell’anno 2002/2003 – e la spiritualità domenicana caratterizza/influenza ancora la mia visione teologica: interiormente democratica, esteriormente esplorativa. Apostolica, non monastica. Mi sento a mio agio nei conventi urbani (“l’aria della città rende liberi”), non nei monasteri rurali. I domenicani sono “gente del XIII secolo” (Yves Congar), nati nella biblica Primavera della povertà (“ordine mendicante”) del Medioevo. Intendono la predicazione come una testimonianza olistica della vita. Sanno intrecciare mirabilmente le grandi storie della fede con le piccole storie della vita. La base spirituale di tutto ciò? La contemplazione stando in mezzo a un mondo che cambia continuamente. Ecco perché i domenicani sono sempre particolarmente “svegli, attenti ed evangelici quando qualcosa nel mondo è sull’orlo del collasso e nuovi segni di speranza e libertà appaiono all’orizzonte” (Edward Schillebeeckx).

La riforma della Chiesa è (auto)evangelizzazione


“Missione” significa che la Chiesa non rimane in se stessa, ma “esce da se stessa” (M.-Dominique Chenu). Perché una Chiesa che cammina con Gesù, non è a suo agio solo a casa sua (“chiesa ad intra”), ma anche fuori casa (“chiesa ad extra”). È bene sottolineare però che non si possono ignorare le urgenti necessità di riforma interna, concentrando tutto sul fronte della missione.

In termini di teologia della missione, si può solo rispondere: le questioni strutturali riflettono il contenuto della fede – o non sono in linea con il Vangelo. Ed è compito dei “cani pastore” domenicani (“canes domini”) sottolinearlo sempre: “Non oportet canes tacere ubi pastores dormiunt”, un’espressione leggendaria di un domenicano spagnolo al Concilio di Trento: dove dormono i pastori, i cani non devono tacere.

Infatti il più grande ostacolo alla missione è una Chiesa le cui strutture sono una costante testimonianza contro il Vangelo. Chi si muove verso l’esterno si deve confrontare inevitabilmente con le patologie interne della nostra Chiesa (clericalismo, identitarismo e autoritarismo) che dimorano all’interno. Missione, quindi, significa sempre anche: conversione al Vangelo del nascente Regno di Dio e non al clericalismo. Perché? Perchè la riforma, urgente e radicale, della Chiesa è già evangelizzazione… e l’evangelizzazione autentica è riforma della Chiesa.

Nella nostra Chiesa ci sono state, e permangono, prospettive molto diverse a riguardo. Quella che è necessaria oggi è un’autoconversione della Chiesa (Paolo VI/Francesco: evangelizzazione) anziché conversione esterna della società (Giovanni Paolo II/Benedetto: nuova evangelizzazione). La missione è un processo di evangelizzazione reciproca, cioè un auto-sviluppo del Vangelo che attira tutte le persone coinvolte nella dinamica nuova e liberatoria del Regno di Dio. Proprio come diceva il mio maestro di Würzburg Rolf Zerfaß con il suo stile inimitabile:

“Entrambi o nessuno sono evangelizzati: il mondo e la Chiesa, gli ascoltatori e i predicatori, i malati e i sani, i laici e i vescovi, i dubbiosi e i credenti. Perché tutti sono partecipi alla dinamica della fede, tutti hanno ancora davanti a sé un percorso di conversione”.

Tracce di Dio nella vita degli altri


La missione è un’auto-trasgressione alteritaria, non un’auto-affermazione identitaria. L’ “esterno/straniero” è parte costitutiva del proprio “interno/natio”. Stiamo attenti: questo processo non è importante tanto perché gli altri abbiano bisogno di noi (di solito non ne hanno!), ma perché noi abbiamo bisogno degli altri: delle loro storie “altre” di vita e quindi anche delle loro narrazioni “altre” di Dio. Perché “Le persone sono le parole che Dio usa per raccontare le sue storie” (Edward Schillebeeckx). Gli “altri” non sono semplicemente cercatori e “interroganti”, ma anche cercatori e “rispondenti” – solo in un’altra prospettiva. Michel de Certeau diceva: “Missione significa dire: mi manchi”.

Chi esce da se stesso, in un contesto autenticamente missionario, segue le orme/tracce di Dio nella vita degli altri. Così facendo, si può sperimentare con gioia che anche un “terreno sconosciuto” può rivelarsi un’occasione importante. Questo atteggiamento non è solo importante: è fondamentalmente. Perché una Chiesa ispirata dal Vangelo, ha un’identità che può sembrare paradossale: “Cercando il mondo, trova se stessa” (M.-Dominique Chenu) – e, aggiungerei, il proprio Dio. La missione è quindi un’autodeterminazione esplorativa, non un ampliamento di domini coloniali. Non è un’espansione territoriale della Chiesa, ma una scoperta/riscoperta di un Dio sempre più grande al di fuori dei “recinti” della Chiesa stessa:

“Il tempo fornisce alla Chiesa […] segni della coerenza del Vangelo con la speranza umana. Che […] i cristiani […] grazie all’impatto con la storia […] percepiscano i segni dei tempi di Dio, che egli stesso inscrive nella realtà profana. Essi […] sperimenteranno la felice sorpresa […] che la grazia può essere trovata all’opera tra i non cristiani. Perché l’attualità del Vangelo è dimostrata dai problemi stessi delle persone”. (M.-Dominique Chenu)

Un conflitto paradigmatico


Un conflitto intraecclesiale significativo e paradigmatico per questa concezione più esplorativa e cosmopolita della missione, in cui anche il domenicano Chenu fu coinvolto in “prima linea”, è esploso quasi settant’anni fa. Stiamo parlando dell’esperienza dei primi preti operai in Francia, e poi in tutta Europa, tra cui figuravano molti domenicani. Dopo la Seconda guerra mondiale, essi erano andati nelle fabbriche di automobili, nei quartieri portuali e nelle miniere di carbone del loro Paese per vivere semplicemente il Vangelo come “preti in tuta blu” (Nathalie Viet-Depaule).

Nella foto il giovane domenicano Albert Bouche, che lavorava in una fabbrica della Renault nella periferia di Parigi

Inizialmente queste preti sono partiti con un’idea di missione molto classica, come “paracadutisti di Dio”, per convertire la classe operaia dall’interno. Ma, poiché si impegnarono realmente nella loro vita, non convertirono gli operai alla Chiesa, ma convertirono la Chiesa al Vangelo. Da qui la loro massima: parlate della vostra fede solo quando vi viene richiesto, ma vivete in modo tale che quella richiesta avvenga!

Il Vangelo che essi volevano portare agli operai ha, in primo luogo, cambiato loro. È come nell’immagine qui sopra (accensione della sigaretta): missione non significa solo trasmettere il proprio “fuoco”, ma anche lasciare che altri lo “accendano” per noi – e questo può essere fatto anche da un compagno di lavoro comunista…

Un thriller ecclesiale a “lieto fine


Il riferimento teologico di molti preti operai era M. Dominique Chenu. Il suo articolo Le sacerdoce des prêtres-ouvriers (1954) fu la goccia che fece traboccare il vaso. A Roma si pensava che l'”anima della contestazione” dei preti operai fosse proprio il domenicano. La reazione fu immediata e violenta: tutti i provinciali francesi furono sospesi e teologi come Chenu e Yves Congar furono rimossi dalle loro cattedre. A tutti i preti operai francesi fu dato l’ultimatum di lasciare il posto di lavoro a partire dal 1° marzo 1954 e di tornare alla cura pastorale delle parrocchie. Dopo la soppressione dei preti operai, François Mauriac commentò che chi attaccava i domenicani “poteva anche far saltare in aria una delle nostre cattedrali”.

La morale della favola? Coloro che escono dai percorsi già battuti e sono “a casa” con i “lontani”, diventano rapidamente “estranei” per chi è fermo all’interno – eppure questo è l’unico modo in cui la Chiesa possa imparare qualcosa. Questo “thriller domenicano” ebbe anche un “lieto fine”: nel 1965, il Concilio Vaticano II riabilitò i preti operai. Una sottile ironia della storia: l’abbreviazione del decreto corrispondente (= PO : Presbyterorum ordinis) è anche la forma abbreviata della denominazione francese dei preti operai (= P.O. : “prêtres-ouvrièrs”) – e che anche molto simile all’abbreviazione dell’ordine dei domenicani: “OP”. Secondo Chenu:

“Lo schema preconciliare è stato […] rovesciato. Al primo posto […] è stata posta la testimonianza del Vangelo, […] in cui poi si articola anche l’ordine sacramentale […]. In questo modo, si ristabilì un equilibrio che era stato compromesso da secoli”.

Sulle orme di san Domenico


So che questa visione non è condivisa da tutti i domenicani. Né è condivisa da tutti gli altri cattolici. Ma – come persona, cristiano e teologo contemporaneo – è il mio modo di “seguire Gesù sulle orme di san Domenico” (Frei Betto). Questo perché: “Seguire san Domenico è un modo di seguire Gesù” (Felicísimo Martínez Díez). Domenico ha aperto un personale percorso gesuano di discepolato (più volte tradito nella storia dell’ordine… vedi Inquisizione), ma che allo stesso tempo è stato più volte rivitalizzato. Il mio dipinto (nell’immagine qui sotto) preferito di San Domenico a Vence, nel sud della Francia (adatto alla sensibilità tardo-moderna) è di Henri Matisse, un ateo profondamente religioso. L’affresco ritrae un “Domenico senza volto”: i domenicani infatti tendono a non coltivare un culto della personalità eccessivo per quanto riguarda il loro fondatore. Il volto si riflette nel volto che il suo ordine saprà dargli nel mondo di oggi…

Per tutti i tentativi di seguire Gesù come domenicani vale quanto segue: “testimonianza di vita” prima che “testimonianza a parole” (San Francesco d’Assisi: “Predicate il Vangelo – se necessario con le parole”). I domenicani (e non solo i domenicani) sono chiamati a vivere la frase semplice, e geniale, del teologo di Münster Johann B. Metz (ispirato dal domenicano Tiemo Rainer Peters): “Il discepolato è sufficiente”. In fondo, il cristianesimo è soprattutto contemporaneità vissuta nella gioia di Dio: seguire Gesù sulle strade del proprio presente. Domenico voleva semplicemente vivere il Vangelo: “sine glossa”, cioè senza note a piè di pagina, reti di sicurezza e facili scorciatoie. Tempo fa ho letto quella che mi piace vedere come una “profezia laica”, la pubblicità di un’azienda che recita: “Outdoors at home”. Credo dovrebbe essere presa sul serio:

“Non devi portare molto con te – ma porta le cose giuste”.

Christian Bauer

Fonti delle immagini: Prixabay, Jürgen Kaufmann, Archives-Chenu/Paris, rivista Wort und Antwort.

(liberamente tradotto da don Paolo Zambaldi)

Articolo in lingua originale:

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