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domenica, Settembre 8, 2024

Per far fiorire il «vero sé»: Limite (don P. Scquizzato)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Il nuovo libro di Paolo Scquizzato, “Venire alla Luce. Riflessioni per un tempo di crisi”, il secondo della Collana “Il Giardino del Silenzio”

«Siamo venuti al mondo ma non ancora alla luce. Nati a metà necessitiamo di portarci a compimento.»

Anche le parole dette, o non dette, contribuiscono a portarci alla luce. Anche le parole hanno a che fare con il processo di crescita ed evoluzione umana. Le parole possono costruire, edificare, costruire relazioni. E di contro possono ferire, distruggere.
Quelle che abitano questo libro, il secondo (dopo Fratelli spirituali. Gotama il Buddha, Gesù il Cristo, di Raffaella Arrobbio) della collana “Il Giardino del Silenzio” diretta dall’Autore, sono parole che vorrebbero gettare luce negli ambiti legati particolarmente alla fatica del vivere, della crisi, del male e dell’ombra.
Un libro-bussola che indica la posizione, per non smarrirsi e per capire che cosa significa essere “umani”, che cosa rende una vita “umana”.
Da A di amicizia a V di vuoto, passando per cura, perdono, silenzio e tante altre, si aprono riflessioni delicate e ampie, stati esistenziali, in dialogo con numerosi autori e autrici tra i più cari a don Paolo Scquizzato.
Un libro che desidera accompagnare il risveglio della parte più autentica presente in ogni persona, il prendersi cura  della propria vita e far fiorire il “vero Sé”.

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«OGNUNO DI NOI HA RISORSE INUTILIZZATE, ANGOLI DELL’ANIMA, CANTUCCI E SACCHE DI CONSAPEVOLEZZA CHE SE NE STANNO ADDORMENTATE.
E POSSIAMO ANCHE MORIRE SENZA AVERLE SCOPERTE, PER L’ASSENZA DI UNO SPIRITO AFFINE 
CHE CE LE RIVELI.»

Vuoto

Siamo stati abituati a riempire la vita, l’agenda, le giornate di tante cose per non venire a contatto col vuoto che ci abita. E quando il tempo e le circostanze ci inducono finalmente ad abitarlo, ne proviamo orrore. È tipico dell’Occidente infatti l’horror vacui.

Il primo a usare questa espressione è stato Aristotele per dire che «la natura rifugge il vuoto».

L’angoscia per i luoghi molto ampi dove c’è senso di vuoto in psicologia è considerata una vera e propria patologia cui si è dato il nome di agorafobia o cenofobia.

Del resto, tuttavia, anche se non si arriva a tanto, tutti ab biamo sperimentato talora come la sensazione di vuoto prenda alla gola e allo stomaco. Ci si ritrova disarcionati da ciò che si reputava incrollabile, sicuro e per sempre.

Il sentimento che prevale è quello dell’angoscia e della di sperazione. Ma è tutto così solamente drammatico? O nelle situazioni di indubbia difficoltà, il vuoto può costituire qual cosa di positivo?

Come spiega molto bene nel libro Vivere le parole, dove ha raccolto i suoi interventi pubblicati nel corso degli anni nella rubrica “Abitare le parole” de Il Sole 24 ore, monsignor Nunzio Galantino (1948), che cita in proposito una con siderazione di quel prete straordinario che è don Angelo Casati, scrive:

«Il vuoto cercato, accolto e custodito non è mancanza. È spazio denso, carico di dolore e di aspettative, di prospettive e di risorse. È spazio di libertà e di creatività. Può essere inizio di vita autentica e grembo di vita piena. A patto che siamo disposti a non privarci della “forza del vuoto, del privilegio della solitudine, della ricchezza della contemplazione e del lusso impagabile della distrazione” (A. Casati), diradando la fitta foresta di impegni e tornando a vivere nel regno dell’autentico».

Quindi c’è una positività del vuoto, come grembo fecondo, come possibilità, come forza a patto che se ne sappia diventare consapevoli. Fin da piccoli siamo stati educati a non lasciare spazi vuoti, a non essere inattivi.

La filosofa Simone Weil (1909-1943) afferma: «La grazia è senza sforzo». Semplicemente accade e non perché si sia posto previamente un atto – «non si può fare un solo passo verso il cielo» – ma perché, continua la filosofa – «se si contempla il cielo alla fine il cielo arriverà».

Viene alla mente, subito, un libro cult della cultura zen contemporanea, Lo zen e il tiro con l’arco del filosofo tede sco Eugen Herrigel (1884-1955). In questo breve prezioso romanzo si afferma che esiste una modalità di essere, preci samente uno stato «in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossi bile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”».

La trovo una definizione splendida di ciò che possiamo in tendere per spiritualità, o meglio per vita spirituale. Se si vive a questo livello, si sperimenterà prima o poi l’accadimento della grazia, per dirla con la Weil.

La vera arte, esclamò allora il Maestro, è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga (da Lo zen e il tiro con l’arco).

Bellissimo: «Lei pensa che ciò che non fa non avvenga». Ma in fondo lo pensiamo tutti. Se non facciamo come può avvenire qualcosa?

La grazia è senza sforzo, appunto.

È ciò che dice Lao Tse, il filosofo cinese vissuto nel VI secolo a.C. e fondatore del taoismo: «Il saggio, senza agire, opera».

E che ha detto anche Leonardo da Vinci: «L’artista, quanto meno opera, tanto più crea».

Il vuoto è aver eliminato l’ostacolo di una volontà troppo volitiva. Essersi sbarazzati del voler conseguire lo scopo a tutti i costi, del voler vedere realizzati i propri desideri. In fondo Gesù ci ha sempre messo in guardia da tutto ciò: «Chi perderà la propria vita la salverà» (Mc 8,35).

Il vuoto non è “niente”, è grembo della possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, stupendosi – come detto sopra – che esiste una creatività indipendentemente dall’opera compiuta.

Mollare la presa significa vivere il distacco. Se ci distacchiamo da tutto – ci ricorda la tradizione mistica – emergerà ciò che è l’essenza vera dell’uomo, che non è né il corpo, né la psiche, ma il fondamento che non conosce mutamento, «la sostanza dell’anima» come direbbe il grande mistico spagnolo del XVI secolo Giovanni della Croce, Dio stesso. In questo modo si è giunti alla beatitudine, che non è semplice pia cere o felicità. È qualcosa che non dipende da fattori esterni, che rimane comunque, anche se tutto il resto crolla, e per questo non si ha più paura di nulla. La vita può conoscere eventi tragici, ma noi sappiamo che nel profondo dell’essere umano riposa un centro, il Logos, il divino stesso, un inalie nabile fondo dell’anima che è ancoraggio, stabilità, grande beatitudine che non viene toccata neanche dall’esperienza più negativa che si possa verificare.

Se è vero che la divinità giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, desideri, posizioni sociali, titoli – allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. La divinità per natura, come la sabbia, l’acqua, riempirà tutto ciò che è vuoto. Possiamo dire che Dio rifugge il vuoto perché lo riempie. Meister Eckhart ha scritto: «Dove e quando egli ti trova pronto, cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura».

Con la religione abbiamo tentato di creare, edificare, costruire per poter in qualche modo legarci alla divinità. Ma abbiamo sortito l’effetto contrario. Abbiamo offuscato la divinità, perché per farne esperienza è chiesto piuttosto un atto di decostruzione, fare spazio, sottrarre, e soprattutto sprofondare nel non-sapere di Dio.

Il primo libro della Bibbia ci ricorda che Dio ha “creato” il sabato, ovvero il giorno vuoto di attività umana; ogni lavoro è vietato. La sapienza ebraica si rese conto che è necessario per l’uomo vivere almeno un giorno alla settimana una dimensione di vuoto, astenendosi dall’opera, dai traffici, dall’edificazione per lasciarsi finalmente raggiungere. La vita è data da ciò che riceviamo e non tanto da ciò che produciamo. Si provi a pensare l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’amore che ci salva: non produciamo nulla: accogliamo tutto e ci compiamo.

Sempre la sapienza ebraica ci parla dell’obbligo della circoncisione per ogni figlio maschio. A otto giorni, il bambino ebreo viene circonciso, e attraverso questo taglio della pelle, l’asportazione del prepuzio egli entra nell’Alleanza, nell’abbraccio della divinità. A dire che l’esistenza proviene dal vuoto. Questa mancanza di pelle, ormai indelebile, questo vuoto, ricorderà per tutta la vita all’uomo, da una parte la sua incompiutezza, dall’altra il bisogno di lasciarsi raggiungere da ciò che è essenziale. La circoncisione è memoria costante che il vuoto, la mancanza è possibilità di unirsi in una relazione e lì compiersi.

Simone Weil insiste sulla necessità di rimanere nella situazione di non-ricompensa, che sia naturale o sovrannaturale. Attendersi qualcosa, dopo aver posto l’azione, in realtà non appartiene alla spiritualità, inficia la possibilità che possa raggiungerci ciò di cui abbisogniamo.

Questa rinuncia a una ricompensa – fosse anche Dio – è la conditio sine qua non perché qualcosa in realtà possa accade re. Questo non significa uccidere il desiderio, ma piuttosto desiderare senza aspirazione, senza aspettativa. Attesa vuota di oggetto. Desiderio senza desiderare qualcosa, nella consa pevolezza che nel momento in cui vivremo questo vuoto di aspettativa, potrà finalmente raggiungerci qualcosa che avrà il sapore anche dell’impossibile. La Weil nel suo saggio L’ombra e la grazia scrive:

«La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. Necessità di una ricompensa, di ricevere l’equivalente di quel che si dà. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d’aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire. Accade lo stesso con la remissione dei debiti (cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo caso si accetta un vuoto in se stessi. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per un atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. L’ammirazione, la pietà (l’unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno. Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male. Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. L’uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di so sta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi. […] Nel mio diventare nulla, Dio ama se stesso, in questo nulla. Ama il vuoto. L’attaccamento alle cose mi fa vedere le cose, me stes so, in un certo modo. Un modo distorto. Illusione».

Giovanni della Croce, in tutte le sue opere e in particolare nella Salita del Monte Carmelo, dice che per giungere al vuoto – e quindi per lasciarsi abitare dalla divinità – bisogna attraversare la notte e le notti. Per compiere la salita al Monte di Dio, occorre fare il vuoto, passando attraverso numerose notti. Ecco uno dei passi più noti di questo suo trattato, che si gioca tutto sul paradosso:

«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente.

Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente.

Per giungere a essere tutto, non voler essere niente.

Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente.

Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi.

Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai.

Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai.

Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei.

Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto.

E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio.

In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l’alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica» (Da Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, 11-13).

Giovanni dice: la fede non è una credenza. Può cominciare come credenza, un atteggiamento tipico del bambino, ma poi matura sino al non-credere-nulla. La fede è semplicemente conoscenza dello Spirito nello Spirito. Non si tratta di credere a questo e a quello, sarebbe dogmatismo, immagini, fantasie. Il santo carmelitano invita a togliere via tutto questo, perché questo è ancora finito, quindi non infinito e quindi non Dio. Un Dio costretto nel finito è idolo. Sì – ecco l’estrema conseguenza – occorre toglier via anche le immagini del divino, quindi la religione, il religioso. La rappresentazione.

«L’immaginazione, la raffigurazione chiude le fessure dalle quali potrebbe giungerci la grazia», dice la Weil. La grazia, si è detto, è dono impossibile che si rivela nell’impossibile.

Taulero (1300-1361), un altro grande mistico tedesco con temporaneo di Meister Eckhart, in uno dei suoi sermoni par la della pesca notturna e miracolosa di Gesù coi discepoli (Lc 5,3-8). Tutta la notte i discepoli lavorano, s’affaticano ma non prendono nulla. Ma proprio perché hanno sperimentato questo nulla hanno potuto trovare il Nulla, ossia Dio, che è il puro nulla. È l’esperienza del servo inutile del vangelo: «Un servo inutile compie opere inutili. No, veramente, nessuno vuol essere un servo inutile. Ognuno vuol sempre sapere di aver fatto qualcosa e là sopra egli costruisce segretamente e vuol esserne consapevole. No, cara figlia, non costruire che sul tuo puro nulla e gettati con ciò nell’abisso della divina volontà, qualsiasi cosa Dio voglia fare di te. […] Inabissati nella tua piccolezza, nella tua impotenza e ignoranza, e con ciò ab bandonati all’alta nobiltà della volontà divina, e non lasciarti mescolare nell’altro, ma mantieniti misera e povera nella sua volontà» (Taulero, Sermone 63).

don Paolo Scquizzato 

Tratto da: Adista Documenti n° 19 del 25/05/2024

Qui l’introduzione a questo testo. 

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