mercoledì, Dicembre 18, 2024

Giornata di Solidarietà con il Popolo Palestinese: uno sguardo al diritto internazionale (G. Petrucci) 

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

In vista della Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese indetta dall’Assemblea Generale Onu nel 1977, che si celebra oggi in ricordo della Risoluzione Onu n. 181 del 1947 sul Piano di ripartizione della Palestina in due Stati, Marco Mascia (presidente del Centro Diritti Umani Antonio Papisca dell’ Università di Padova) e Flavio Lotti (presidente della Fondazione Perugiassisi) hanno redatto un approfondito documento che ribadisce «cosa stabilisce il diritto internazionale» in merito alla questione palestinese e alla construzione di una pace giusta e duratura in Medio Oriente».

Datato 27 novembre, il documento “Riprendiamo in mano la bussola dei diritti umani” si apre denunciando il tradimento della Partition Resolution, visto che ancora oggi esiste solo lo Stato di Israele e che il popolo palestinese «continua ad essere sottoposto ad una violenta occupazione militare».

Eppure Israele e Palestina, spiegano Mascia e Lotti, dovrebbero essere «fratelli gemelli», nati insieme il 29 novembre 1947 ed entrambi «figli della stessa madre, l’Organizzazione delle Nazioni Unite, fondata per “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”». E dunque, «entrambi hanno il diritto di esistere, con la stessa sicurezza, la stessa dignità e gli stessi diritti».

Autodeterminazione

Il documento tiene a sottolineare «che la “Questione Palestinese” è innanzitutto una questione di diritti umani e che gli inalienabili diritti del popolo palestinese sono sanciti dal diritto internazionale dei diritti umani e da numerose risoluzioni dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite». Tra queste, la Risoluzione 3236 del 1974 «indica espressamente, tra gli inalienabili diritti del popolo palestinese, il diritto all’autodeterminazione», peraltro riconosciuto a tutti i popoli dall’art. 1 dello Statuto dell’Onu, nonché dai due Patti (“Patto relativo ai diritti economici, sociali e culturali” e “Patto relativo ai diritti civili e politici”) adottati dall’Onu nel 1966 per precisare i diritti fondamentali proclamati con la Dichiarazione universale dei diritti umani. Il diritto all’autodeterminazione, aggiungono i due firmatari, torna protagonista della scena internazionale il 9 luglio 2004, grazie alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia (organo Onu con sede all’Aia) che dichiara contrario al diritto internazionale il muro di separazione e invita Israele a sospenderne la costruzione. In quella pronunciazione della Corte, chiariscono ancora Mascia e Lotti, «ci troviamo in presenza di una importante conquista di civiltà giuridica: l’autodeterminazione dei popoli da “principio” politico diventa un “diritto fondamentale” espressamente riconosciuto dalla legge universale (scritta) dei diritti umani».

Il documento prosegue il suo excursus tra le risoluzioni Onu per la Palestina. Come la n. 3237 del 1975, che attribuisce all’OLP (l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina creata a Gerusalemme il 2 giugno 1964) lo status di “osservatore”; o come la n. 67/19 del 29 novembre 2012 – quasi 40 anni dopo la 3237 – che riconosce la Palestina come «Stato osservatore non membro». «La portata di questo atto è di altissimo rilievo sia giuridico sia politico», riconoscono i due firmatari: «La Palestina è riconosciuta, a tutti gli effetti, quale Stato con i diritti e le prerogative proprie di uno Stato “indipendente, sovrano, democratico, contiguo, autosufficiente”, come recita appunto la Risoluzione».

Tre anni dopo (1975) è la volta della Risoluzione 3376 che istituisce il Comitato per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (Ceirpp) composto da 25 Stati. In seguito alla nascita del Ceirpp, spiega ancora il documento, emerge in seno all’Assemblea Generale la necessità «di creare un’opinione pubblica informata in tutto il mondo a sostegno del conseguimento dei diritti inalienabili del popolo palestinese». E si arriva così alla Risoluzione n. 32/40 B del 2 dicembre 1977, con la quale viene indetta la Giornata di solidarietà del 29 novembre.

Apartheid

Nel lungo excursus, Mascia e Lotti riflettono anche sul Consiglio Diritti Umani (già Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite fino al 2006), organo sussidiario dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che dal 1993 nomina i “Relatori speciali sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967”. Attualmente, la relatrice speciale in carica è Francesca Albanese, che nel Rapporto 2022 denuncia la mancata realizzazione delle aspirazioni all’autodeterminazione da parte del popolo palestinese, stroncata proprio dall’occupazione israeliana. Perseguendo un intento di «depalestinizzazione del territorio occupato», l’occupazione israeliana «viola la sovranità territoriale palestinese sequestrando, annettendo, frammentando e trasferendo la popolazione civile nel territorio occupato. L’occupazione – aggiunge Albanese – mette in pericolo l’esistenza culturale del popolo palestinese» e «viola la capacità dei palestinesi di organizzarsi come popolo, libero dal dominio e dal controllo alieno, reprimendo l’attività politica, la difesa e l’attivismo dei palestinesi». Scrive Albanese che «l’occupazione è illegale ed è diventata uno strumento per attuare discriminazione razziale, conquista e annessione e trasformarsi in un regime di apartheid».

Si tratta di accuse pesanti, che costano alla relatrice Onu accuse e invettive, spesso anche molto pesanti, da parte dei settori dell’opinione pubblica più vicini alla causa israeliana. Ma il faro delle sue formulazioni resta sempre e soltanto il diritto internazionale: sottolineano Mascia e Lotti che Albanese «fa riferimento alla definizione di crimine di apartheid contenuta nella Convenzione contro l’apartheid (1965) e nello Statuto di Roma che ha istituito la Corte penale internazionale (1998)». In questi testi l’accusa di “apartheid” può essere lanciata solo quando si verificano tre condizioni: quando cioè un gruppo etnico esercita su un altro gruppo «un sistema di domino» e una forma di «oppressione sistematica»; quando, infine, mette in campo «atti disumani compiuti su base diffusa o sistematica» (per atti disumani si intende «trasferimento forzato, espropriazione della proprietà fondiaria, creazione di riserve e ghetti separati, negazione del diritto di partire e di tornare nel proprio paese e del diritto a una nazionalità»…).

Nel secondo Rapporto, presentato all’Assemblea generale il 24 ottobre scorso (v. Adista Documenti n. 40/23), Albanese denuncia l’opacità dell’iniziativa militare israeliana nei territori occupati, la macro-violenza (forza letale) ma anche la logorante micro-violenza che i palestinesi subiscono quotidianamente (incursioni di coloni, distruzione e saccheggio di terre e case, umiliazione, arresto, detenzione arbitraria anche di minori). Sono proprio i minori a subire maggiormente la violenza dell’occupazione: a loro il futuro resta precluso, nonostante «Israele e Palestina abbiano ratificato la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza rispettivamente nel 1991 e nel 2005».

I doveri di Israele

Ai sensi del diritto internazionale, sottolineano gli estensori del documento, «la conquista dei territori con la forza è illegale» e, per questo, occorre «rispettare i confini territoriali del 1967» e anche riconoscere «il diritto al rientro» ai profughi palestinesi – e ai discendenti – costretti ad abbandonare le loro terre. A tal proposito, la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu n. 242 del 22 novembre 1967 ha ribadito alcuni principi chiave: una pace giusta e duratura non può che essere fondata sul «ritiro delle forze armate israeliane» dai territori occupati, sulla «cessazione di tutte le manifestazioni di belligeranza», sul «riconoscimento della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ogni Stato della regione, compreso lo stato di Palestina», sul riconoscimento del diritto del popolo palestinese a «vivere in pace all’interno di frontiere sicure e riconosciute al riparo di minacce o atti di forza».

Mascia e Lotti segnalano ancora una volta l’obbligo giuridico di Israele «di sospendere la costruzione di insediamenti nei Territori Palestinesi Occupati, compresa Gerusalemme Est, insediamenti che si configurano come atti di annessione territoriale e che costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale e un gravissimo ostacolo per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e di una pace». A tal proposito, la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 2334 del 23 dicembre 2016 chiede ad Israele «di porre fine alla sua politica di insediamenti nei territori palestinesi dal 1967, inclusa Gerusalemme Est, e ribadisce che non riconoscerà alcuna modifica dei confini del 1967».

Tra i doveri di Israele ci sono anche quelli assegnati alle potenze occupanti dalla Quarta Convenzione di Ginevra (1949), che impone la protezione dei civili (in particolare bambini, donne, malati e anziani).

Ancora, Israele avrebbe l’obbligo – derivante dal parere della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 – «di demolire il muro costruito all’interno dei territori occupati in quanto contrario al diritto internazionale» e di riparare i danni causati proprio con l’edificazione del muro di separazione nei territori occupati e a Gerusalemme Est.

Il documento sottolinea infine anche gli obblighi della Comunità internazionale, anch’essi oltremodo calpestati negli ultimi decenni: «Tutti gli Stati sono obbligati a non riconoscere la situazione illecita derivante dalla costruzione del muro» e a non fornire aiuto o assistenza alla realizzazione del muro stesso; i Paesi parte della Quarta Convenzione di Ginevra, poi, sono chiamati a far rispettare ad Israele i suoi obblighi nei confronti della popolazione civile che sotto la sua occupazione.

Giampaolo Petrucci, Adista.it 29/11/2023

https://www.adista.it/articolo/71010

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