Alla vigilia del XXI secolo, con le celebrazioni del millennio alle porte, mi sentii sempre più chiamato a esaminare lo stato della religione cristiana nel mondo. Si notavano da ogni parte molteplici segni del del suo declino e persino, forse, di una sua morte imminente.
Sempre meno persone frequentavano le chiese in Europa, e quelle che lo facevano erano sempre più anziane.
Le Chiese del Nord America affondavano o in un vuoto tanto liberale quanto insulso, o in un fondamentalismo anti-intellettuale.
Le Chiese sudamericane si allontanavano sempre di più dalle preoccupazioni e della gente e nessuno dei leader sembrava capace di rispondere a queste preoccupazioni con autorità.
Nulla di tutto ciò era nuovo.
Nel corso degli ultimi 500 anni, dinanzi a ogni scoperta proveniente dal mondo della scienza riguardo alle origini dell’universo, e della vita stessa, le spiegazioni offerte dalla Chiesa cristiana sembravano sempre più sorpassate e irrilevanti.
I leader cristiani, incapaci di accettare la rivoluzione della conoscenza, sembravano credere che l’unico modo di preservare il cristianesimo fosse quello di non alterare i vecchi modelli e di non prestare attenzione alle nuove conoscenze (e tanto meno metterle in pratica).
Nella misura in cui affrontavo tali questioni come vescovo e come cristiano impegnato, giunsi a convincermi che l’unica maniera di salvare il cristianesimo come una forza per il futuro, fosse trovare nella Chiesa il coraggio che la rendesse capace di rinunciare a molti schemi del passato. Cercai di articolare questa sfida nel mio libro WHY CHRISTIANITY MUST OR DIE, pubblicato proprio alla vigilia del XXI secolo. In questo libro esaminai in dettaglio i temi che – ne ero convinto – il cristianesimo doveva affrontare.
Poco dopo la pubblicazione di questo libro ridussi il suo contenuto a 12 tesi, che attaccai alla maniera di Lutero, all’ingresso principale della cappella del MANSFIELD COLLEGE, all’Università di OXFORD, nel Regno Unito. E che dopo inviai per posta a tutti i leader cristiani del mondo, compresi il PAPA, il Patriarca dell’Ortodossia Orientale, l’Arcivescovo di Canterbury, i leader del Consiglio Ecumenico delle Chiese, quelli delle Chiese Protestanti tanto negli Stati Uniti come in Europa, e alle più note voci televisive del cristianesimo evangelicale.
Un tentativo di invitarli ad un dibattito sui veri problemi che, ero certo, la Chiesa cristiana ha di fronte a sé oggi. Presentai le mie 12 (dodici) tesi in un linguaggio tanto audace quanto fu possibile, pensato prima di tutto, per suscitare risposte e creare dibattito. Recentemente gli editori della rivista HORIZONTE mi hanno chiesto di spiegare nella loro pubblicazione in America Latina, per il mondo di lingua spagnola, e in definitiva per i cristiani di tutto il mondo, le ragioni per invitare al dibattito intorno a queste dodici tesi.
Sono felice di avere l’occasione di farlo. Ricevo con gioia le risposte di cristiani di ogni luogo. Non mi presento come un esperto né intendo dare certezze nell’offrire le mie risposte; ma ritengo di comprendere i problemi che affrontiamo come cristiani desiderosi di mantenerci legati al XXI secolo…
(JHON SHELBY SPONG).
ARGOMENTO BIBLICO E TEOLOGICO. LA QUINTA TESI.
Le storie dei miracoli del Nuovo Testamento non possono più essere interpretate, nel nostro mondo post-newtoniano, come avvenimenti soprannaturali operati da una divinità incarnata.
IL TESTO ARGOMENTATIVO.
Nella Bibbia, i miracoli non sono esclusivi di Gesù. Secondo le Scritture ebraiche, Mosè opera miracoli, alcuni dei quali piuttosto strani. In un racconto dell’Esodo, Mosè lancia al suolo il suo bastone che si trasforma in serpente (Es 7, 8-13).
Alcuni consistono nel fare uso di poteri divini, come nel caso delle piaghe d’Egitto (Es 7, 12). Anche Giosuè opera miracoli nelle Scritture ebraiche, separando le ricche acque del fiume Giordano (Gs 3, 1-10) e fermando il sole nel suo movimento intorno alla Terra per avere più ore di luce in maniera da consentire al suo esercito di sconfiggere i nemici , gli ammoniti (Gs 10,21 ss).
Successivamente, nella storia biblica, tanto Elia quanto Eliseo, operano miracoli. Entrambi esercitano il controllo sugli agenti atmosferici e accrescono la quantità di alimenti disponibili (1Re 17; 2Re 4,7). Anche i miracoli di guarigione appaiono in alcuni racconti del ciclo di Elia e di Eliseo (2Re 5), come le storie di resurrezione (2Re 17; 2Re 4,18ss).
Il terzo luogo delle Scritture ebraiche in cui si menzionano i miracoli è Isaia. I miracoli sono tra i segnali che, secondo il profeta, annunciano l’arrivo del Regno di Dio. In quel giorno, dice, si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto” (Is 35, 5-6).
Credo che si possa ora dimostrare che quasi tutti i miracoli attribuiti a Gesù possono essere spiegati come versioni ampliate di storie di Mosè, di Elia e di Eliseo, o come applicazioni alla vita di Gesù, in senso messianico, dei segni del regno di Dio in Isaia. Se Gesù era il Messia, avrebbe inaugurato questo Regno e, pertanto, i segni destinati ad annunciarlo sarebbero apparsi nella sua vita. Cosicchè i miracoli sarebbero segni da interpretare, non avvenimenti soprannaturali che infrangono le leggi della natura.
Conviene prendere nota che Paolo sembra non aver saputo nulla di miracoli associati al ricordo di Gesù. Per quanti sostengono che il documento Q e anche il Vangelo di Tommaso siano anteriori a Marco (tra i quali io non mi annovero), credo che valga la pena indicare che nessuna di queste due fonti presenta Gesù nell’atto di realizzare miracoli.
I miracoli associati a Gesù vengono introdotti nella tradizione cristiana con Marco, agli inizi dell’ottava decade del I secolo. Successivamente questi miracoli si ripetono quasi letteralmente in Matteo, che scrive il suo vangelo a metà della nona decade e agli inizi della decima.
Diventano poi “segni” nel Vangelo di Giovanni, alla fine della decima decade. Un segno non è solo un avvenimento che può essere descritto; un segno punta al di là di sé stesso verso qualcosa che non può contenere. Il quarto Vangelo raccoglie sette segni attribuiti a Gesù (Gv 2-11). Credo sia da rimarcare il fatto che che il primo dei segni del Vangelo di Giovanni, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana di Galilea (Gv 2), e l’ultimo, la risurrezione di Lazzaro a quattro giorni dalla sepoltura (Gv 11), non erano mai stati narrati e neppure menzionati in alcuno scritto cristiano anteriore a Giovanni, il quale scrive tra il 65 e i 70 anni dopo la crocifissione.
I testi dei racconti di miracoli nei Vangeli, che pretendono di parlarci del potere soprannaturale di Gesù, sono pieni di simboli da interpretare. I pani che vengono moltiplicati per alimentare la moltitudine in Marco sono cinque sul lato ebraico del lago,, dove mangiano cinquemila uomini (più le donne e i bambini) e avanzano dodici ceste dopo che tutti si erano sfamati (Mc 6, 30-44).
Successivamente sul lato non ebraico del lago, i pani sono sette e quelli che si alimentano sono quattromila, con sette sporte di pezzi avanzati (Mc 8, 1-10). Mi sembra che si tratti di una serie di piste offerte dagli autori dei Vangeli perchè vengano interpretate, in quanto trasformano la storia di Mosè e della manna del desserto che alimenta gli israeliti in un racconto riferito a Gesù.
Ricordiamo che Gesù sarebbe stato chiamato il “pane della vita”, quello che sazia la fame più profonda dell’anima umana (Gv 6). Se solo aprissimo gli occhi per vedere come i racconti di miracoli del Nuoto Testamento non debbano essere letti letteralmente come avvenimenti soprannaturali, ci avvicineremmo molto di più a ciò che gli evangelisti avevano in mente quando cercavano di usare il testo di Isaia 35 in modo che trovasse compimento nei vangeli.
Questa esposizione sui miracoli potrebbe ampliarsi quasi indefinitamente; Gesù che risuscita dalla morte un bambino (Mc 5, 22), è un’eco del racconto di Eliseo che risuscita un altro bambino (2Re 4, 32-37). Gesù che risuscita dalla morte il figlio unico della vedova di Naim(Lc 7) è un’eco di Elia che risuscita il figlio di un’altra vedova (1 Re 17). La risposta di Gesù alla domanda degli inviati di Giovanni Battista, che era in prigione, incorpora il testo di Isaia 35 alla tradizione dei Vangeli (Mt 11, 1-6, Lc 7, 18-23).