giovedì, Novembre 21, 2024

Un Dio emerito: una breve risposta (don Paolo Zambaldi)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Newsletter n. 240 del 1 dicembre 2021

Carissimi,

Si è tenuto a Camaldoli dal 28 ottobre al 3 novembre il XX Colloquio promosso dal gruppo “Oggi la Parola” per riflettere su che significhi essere cristiani oggi nella Chiesa al tempo di papa Bergoglio. Il punto di partenza, messo in luce dal priore dei Camaldolesi Alessandro Barban, è stato che siamo in una situazione di crisi, nella comunicazione della fede, non sempre compresa anche da preti e vescovi, incapaci di cogliere la ricchezza del governo pastorale di papa Francesco; questa è stata molto bene illustrata, come ripresa del Concilio, nella relazione introduttiva tenuta al convegno dallo storico Daniele Menozzi.

Secondo l’esperienza riferita dal monaco camaldolese, c’è  una parte della Chiesa che neanche capisce la novità di papa Francesco e perciò non sa nemmeno di che cosa parlare nel lungo Sinodo che da lui è stato promosso. A noi pare che questa novità consista essenzialmente nell’annunziare il nudo Vangelo, rompere i confini della Chiesa, abbandonare la sua pretesa di essere l’esclusiva via di verità e di salvezza e intendere come popolo di Dio la totale unità degli esseri umani, nel poliedro delle loro varie culture e religioni, tutti “prossimo”, perché della stessa carne (Isaia), “fratelli tutti”, nessuno “eletto”, nessuno “predestinato”, nessuno escluso e tutti chiamati a passare dalla pedagogia dei comandamenti e della legge alla libertà dei figli di Dio.

Di fronte a simile riforma tutte le altre pur importanti – i ministeri, il ruolo della donna, la democrazia nella Chiesa – appaiono ininfluenti; ma il problema è come mettere in campo questa Chiesa ripartita di nuovo da Gesù, dalla risurrezione, dalle verità della fede, compresi i “dogmi” dei Concili, quando tra i cattolici stessi si diffonde la nuova moda del post-teismo, dell’età “postreligionale”, del superamento dei “miti” grazie alla scienza moderna, alla teoria dei quanti, al pensare Dio come metafora infantile del passato, secondo la nuova gnosi che altro non è che il razionalismo ateo della modernità. Sembra questa la vera sfida, in nome di Dio la perdita di Dio, la sua liquidazione anche come problema, in base all’idea che se questo aveva un senso ieri non lo avrebbe più oggi. Non si tratta della contestazione atea; Dio non cade sotto la negazione del “non est Deus”, ma della irrilevanza, perciò senza nemmeno conflitto, senza dramma: lo si licenzia in quanto se ne dichiara esaurita la funzione sociale, è cosa di ieri, è diventato un Dio emerito. Ci sono teologi, anche autorevoli, informatori religiosi, esponenti della galassia cattolica che militano su questa strada.  Papa Francesco parla di Dio, non del dopo-Dio. Di tutto questo però non sembra esserci vera avvertenza nella comunità cristiana, e se questo giova alla buona pace nei dibattiti intraecclesiali  (anche nel corso del colloquio camaldolese non se n’è patita grande inquietudine), non risponde all’urgenza dei tempi, perché se la Chiesa non si accorge  dell’ultima chance di sopravvivenza che le è offerta da papa Francesco col suo annunzio di un Dio di tutta misericordia, se non si accorge che, perduto Dio, tutto il resto è perduto, essa resterebbe solo come un ingombro sul cammino; e non ci sarebbe più un “oggi” per l’ascolto della Parola, e anche il monachesimo non avrebbe senso. E sarebbe anche inutile la riforma della Chiesa, perché come Gian Giacomo Migone ha riferito a Camaldoli della risposta data da Gorbaciov a chi gli rimproverava una mancata critica a Putin, “prima di riformare bisogna esistere”. E in questa visione post-cristiana il Dio che rimane, spogliato e umiliato, sarebbe un Dio senza Chiesa. Ma non è facile riconoscere anche in questa seconda kenosi, del Padre come del Figlio, l’adempimento e la salvezza.

Sul colloquio di Camaldoli riprendiamo sul nostro sito un’ampia notazione di Giuseppe Avallone pubblicata su “Il Tetto”, in cui si trova anche una bella citazione di papa Francesco e del suo progetto pastorale. Riportiamo anche una recensione di Domenico Gallo al libro di Sara Montinaro sulla tragedia dello Stato islamico.

Con i più vivi auguri di buon Avvento

www.Chiesadituttichiesadeipoveri.it

Un Dio emerito: una breve risposta

Ho letto quasi per caso il testo della Newsletter n.240 del 1 dicembre 2021 di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” (riportato da Adista con il titolo “Un Dio emerito”) e devo ammettere di essere rimasto alquanto sorpreso sia per il tono usato che per i contenuti espressi. L’articolo parte da un convegno a Camaldoli e da una difesa “senza se e senza ma” del papato di Francesco e via via si trasforma in un maldestro e contraddittorio tentativo di riflessione sul teismo e post-teismo che di fatto è un’invettiva contro quest’ultimo.

Ormai “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” è un format abbastanza noto nelle modalità e nei contenuti, un gruppo (in realtà non si comprende chi rappresenti a parte i singoli autori) che continua a riproporre la dialettica stanca e, passatemi il termine “tossica” del “Papa Buono vs. Chiesa Cattiva”. Infatti il testo esordisce con l’ennesima apoteosi dell’attuale pontificato in cui Francesco, l’eroe senza macchia e senza paura, è ostacolato dalle forze del male che tramano contro di lui, forze immagino rappresentate da vescovi, cardinali, preti, seminaristi, suore, frati o troppo conservatori o troppo progressisti e da teologi che continuano a pensare, laici troppo autonomi, donne troppo emancipate e fastidiosamente petulanti. Leggendo risulta chiaro dunque che chi dovesse avere l’ardire di pensarla diversamente, o sollevare obiezioni, o semplicemente mostrare dei dubbi è uno che “non capisce”, “sbaglia”, è “divisivo” anzi meritevole di anatema “perché se la Chiesa (n.d.r quale Chiesa?) non si accorge dell’ultima chance di sopravvivenza che le è offerta da papa Francesco…”. Una visione della realtà ecclesiale molto comoda e funzionale per chi è al vertice e vuole mantenere lo status quo ad ogni costo ma senza rischiare di apparire troppo “tradizionalista”.

Il testo infine si scaglia con fervore inquisitorio soprattutto contro la ricerca post-teista definita dai censori chiesapauperisti “moda”, “nuova gnosi”, “ateismo”, con buona pace di studiosi, università, teologi di fama mondiale, seminari, progetti di ricerca che coinvolgono altre confessioni, il mondo della scienza e della filosofia. E non è una ricerca nata ieri ma che parte ormai da lontano e che ci spinge a confrontarci con il presente e il futuro, con le scienze, con il pensiero laico. Tutte queste condanne, oltre a rivelare l’indole delle persone che scrivono, è qualcosa di profondamente disonesto, semplicistico e rivela una mancanza di capacità di confronto che di solito ha le sue radici in una scarsa preparazione innanzitutto teologica ma, temo, anche culturale. Infatti quando si ha l’animus da tifoso e non da cercatore di Verità si cade in contraddizione senza neanche rendersene conto. Io vorrei fare una domanda a questa sorta di collettivo, solo una: “Come si fa a conciliare un modo radicalmente nuovo “nell’annunziare il nudo Vangelo, rompere i confini della Chiesa, abbandonare la sua pretesa di essere l’esclusiva via di verità e di salvezza e intendere come popolo di Dio la totale unità degli esseri umani, nel poliedro delle loro varie culture e religioni, tutti “prossimo”, perché della stessa carne (Isaia), “fratelli tutti”, nessuno “eletto”, nessuno “predestinato”, nessuno escluso e tutti chiamati a passare dalla pedagogia dei comandamenti e della legge alla libertà dei figli di Dio.”, con una teologia “ufficiale”, che nega di fatto ogni possibile sviluppo, che si sente esentata da ogni forma seria di dialogo o confronto, che indirizza ideologicamente la lettura della Bibbia, che dona una legittimazione divina a norme e sistemi escludenti, che fomenta il patriarcato più becero e violento, che ferisce gli ultimi (ultimo non è solo chi ha materialmente poco!)? Come è possibile far quadrare i conti?

E lo dico piano per non spaventare gli anziani riuniti nelle pittoresche pievi: la tanto temuta “era postreligionale” è già la realtà che tutti viviamo consapevolmente o meno, e come scrive Ferdinando Sudati introducendo un testo del gesuita Roger Lenaers, oggi «non ci troviamo tanto di fronte ad un’epoca di cambiamenti, quanto ad un cambiamento d’epoca». È diventato quindi necessario per il cristiano, che ha a cuore il messaggio di salvezza predicato da Gesù, uscire dal recinto del tempio per guardare in faccia il mondo come se “quel” Dio- non- ci fosse (il theos antropomorfo e personale), quel Dio definito da Bonhoeffer “un Dio tappabuchi” per comprendere il linguaggio, la vita, i bisogni di un uomo diventato ormai “planetario”

E sì la Chiesa come l’abbiamo conosciuta è destinata a cambiare volto, a non esistere più, se essa insiste a porre a suo fondamento un Dio ormai reso incredibile dalla storia e dall’evoluzione del pensiero, un Dio così umano da non essere più Dio. Come dice giustamente Gorbaciov “per riformare bisogna esistere”. La riforma, nessuna riforma di questo modello di Chiesa basta ormai più, perché essa è diventata insignificante per l’uomo moderno. Dovrà riconquistarsi uno spazio e potrà avere qualche chance solo se ripartirà da una ridefinizione di Dio, da una conseguente rilettura del testo biblico, da una ricerca umile della verità per molto tempo oscurata in nome del potere e dell’ortodossia che tanto male han fatto ai credenti e in particolare ai poveri.

La storia dovrebbe essere nostra maestra, anche sa la cosa avviene raramente. Infatti non si deve mai dimenticare il pericolo insito nel culto del capo, nell’esaltare vie “senza dubbi”, elargire patenti, stabilire dogmaticamente chi ha ragione e chi ha torto…

Perché c’è un’enorme differenza tra mettersi in dialogo e spacciare slogan, tra cercare la Verità e fare propaganda… il confine a volte si passa quasi senza rendersene conto ed è facile scivolare verso il populismo, illuminato magari, ma sempre populismo!

In Russia vi fu un testo che, nato clandestino, libero e critico, finì per diventare la voce del regime: si chiamava Pravda! (che in russo, guarda caso, significa proprio “Verità”).

E oggi, mi dispiace dirlo, ma nella Chiesa e nella società si scorgono pochi liberi pensatori ma tante piccole Pravde.

Don Paolo Zambaldi, uno che “non capisce”

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