lunedì, Novembre 18, 2024

Smantellare il patriarcato per eliminare la disuguaglianza : Per una società e una Chiesa di uguali…

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).
DOC-2904 MADRID-ADISTA. «La faccia più sinistra del capitalismo consiste nell’annichilimento biologico ottenuto con il genocidio più grave che abbia conosciuto l’umanità, quello prodotto dalla fame e da tutto ciò che nega all’essere umano la possibilità materiale di vivere. Perché questo ritorno indietro a un mondo radicalmente disuguale? Sarà che l’uguaglianza è un miraggio, un mito anacronistico?». 

“No” è in sintesi la risposta che il teologo Benjamín Forcano, a cui si deve ascrivere la domanda, formula nella sua riflessione “Per una società e una Chiesa di uguali”. No, perché la disuguaglianza è nata fondamentalmente con il patriarcalismo, «inteso come sistema di dominio esercitato dai maschi in quanto genere in tutte le sfere della vita», generando la cultura – ancora attuale – dell’«individualismo possessivo» nelle relazioni interpersonali e della «logica nazionalista» nelle relazioni fra i popoli. Il tutto sostenuto e amplificato dal racconto biblico dominante su Adamo ed Eva. Ai nostri giorni, per smantellare il patriarcato insito nella nostra cultura, dall’ambito sociale a quello religioso, si sta assistendo ad un cambiamento di paradigma nelle relazioni maschio-femmina cui stanno lavorando teologhe, filosofe, antropologhe…  

D’accordo che l’uguaglianza è una delle conquiste più importanti dell’umanità negli ultimi secoli, una conquista irrinunciabile, ma allo stesso tempo, e paradossalmente, constatiamo il sorgere di legittimazioni ideologiche di “disugualitarismo” che finiscono con l’instaurare livelli scandalosi di disuguaglianza.

La crisi di cui soffriamo intende risolvere la questione a costo di una maggiore disuguaglianza e di una maggiore ingiustizia, come se, guidati e limitati all’estremo da una demagogia ugualitaria, dovessimo ora devolvere ai ricchi, ai potenti e ai baciati dalla fortuna, le risorse che avevano consentito di condividere con gli altri.

Un capitalismo cinico cerca di distruggere lo Stato sociale e il progetto di un’Europa socialista. I fatti dimostrano in che modo il capitalismo impone un dominio politico e un’egemonica culturale su scala globale che impoverisce e distrugge gran parte dell’umanità.

La sua faccia più sinistra consiste nell’annichilimento biologico ottenuto con il genocidio più grave che abbia conosciuto l’umanità, quello prodotto dalla fame e da tutto ciò che nega all’essere umano la possibilità materiale di vivere. Perché questo ritorno indietro a un mondo radicalmente disuguale? Sarà che l’uguaglianza è un miraggio, un mito anacronistico?

Senza pretendere di svilupparli, voglio sottolineare i fattori che più hanno impedito di tradurre l’uguaglianza in relazioni umane sociali ed ecclesiali più giuste e solidali.

1) L’individualismo possessivo

È l’individualismo possessivo ad alimentare la logica proprietarisa – cioè la cultura che abbiamo socializzato – che ha permesso a cittadini, e a cittadini cristiani onorevoli, di arricchirsi ad ogni costo senza nessun limite morale, senza nessuna responsabiità, e a determinare come naturale la disuguaglianza e l’asservimento del povero.

Chi si comporta eticamente – e deve farlo ogni cittadino – e chi ardisce di chiamarsi cristiano deve tremare di fronte al clamore dei poveri e fare semplicemente ciò che Dio vuole. Nel suo Regno hanno posto e preferenza gli impoveriti.

2) La logica “nazionalista” dello Stato-Nazione

Questa logica ha cominciato col garantire uno statuto di cittadinanza con diritti e libertà per tutti, ma ha finito col far diventare la cittadinanza uno “strumento di chiusura ed esclusione” dando origine a un “noi” e a un “loro” conflittuale e controverso. Di modo che ogni Stato crea un modello legale e ideologico di relazione fra i cittadini che comporta una discriminazione nel momento di riconoscere diritti e doveri agli uni e agli altri… In questo senso, ogni Stato è nazionalista ed escludente.

3) Il peso della logica patriarcalista e clericale

La Rivoluzione francese è durata poco e non ha permesso di riflettere su una società nella quale uomini e donne fossero liberi e uguali.

Il patriarcalismo, inteso come sistema di dominio esercitato dai maschi in quanto genere in tutte le sfere della vita è una delle cause più determinanti della disuguaglianza umana.

Se in sostegno ad essa abbondano argomenti basati sul fatto che la disuguaglianza fra uomini e donne è un fatto naturale e voluto da Dio, possiamo capire che il peso della logica patriarcale e clericale rappresenta una sfida di enorme importanza. Cosa che rende particolarmente urgente e interessante l’indagine che la teologia, specialmente femminista, sta realizzando sul quando e sul come è avvenuta la scomparsa del matriarcato, con studi diretti del racconto biblico che descrive l’inizio del mondo, e sul come e quando è avvenuta la sostituzione del racconto precedente, eliminandolo, demonizzandolo e tramutandolo da benedizione a maledizione.

4) Sussistenza e smantellamento del patriarcato

L’indagine dimostra che circa 10mila anni fa si produsse la liquidazione del matriarcato. Senza bisogno di analizzare ora questa lunga traiettoria, ci limitiamo al tempo più vicino nel quale ci è stata trasmessa la cultura patriarcale, un 3mila anni fa, e che ancora oggi è in vigore in grandi settori della società e della Chiesa, mantenendola come se fosse espressione e volontà della Divinità.

Il racconto primordiale sostituito:

Genesi, 33, 16: L’uomo ti dominerà. «Verso tuo marito sarà il tuo istinto ma egli ti dominerà».

Genesi 3, 13-15: Metto inimicizia fra te, il serpente e la donna. Il Signore Dio disse alla donna: «Che hai fatto?». Rispose la donna: «Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato». Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche (…). Io porrò inimicizia tra te e la donna».

Genesi 3,6: L’albero della vita tentò la donna. «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò».

Genesi 3,16: Distorsione dell’amore fra l’uomo e la donna. Alla donna Dio disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».

Questi quattro simboli significavano, nel testo matriarcale primordiale, che:

– la donna era portatrice di vita;

– il serpente rappresentava la saggezza divina;

– l’albero della vita significava il rinnovamento continuo della vita;

– la relazione sessuale uomo-donna rendeva possibile l’accesso all’estasi e al sapere mistico.

Dunque, nel nuovo – e attuale – racconto questi quattro simboli vengono desacralizzati e trasformati in maledizioni. E su di essi si sono appoggiate per secoli le fondamenta che religiosamente hanno sostenuto la disuguaglianza fra l’uomo e la donna.

Secondo Leonardo Boff, «Il lavoro teologico attuale intende dimostrare il carattere costruito dell’attuale racconto biblico dominante, centrato sulla dominazione, sul peccato e sulla morte, e proporre una alternativa nella quale appare una relazione nuova con la vita, il potere, il sacro e la sessualità. Stiamo assistendo ad un cambiamento di paradigma nelle relazioni maschio-femmina. Ma questo si ottiene solo decostruendo racconti che distruggono l’armonia maschio-femmina e costruendo nuovi simboli che ispirano pratiche civilizzatrici e umanizzanti per i due sessi. È quello che le femministe, le antropologhe, le filosofe, le teologhe e altre stanno facendo con espressiva creatività. E ci sono teologi che si uniscono a loro».

L’essere umano è:

a) Una realtà conviviale

Tutto l’essere umano, in base alla sua individualità personale, riconosce se stesso come autonomo e separato dagli altri, però consapevole che, insieme a lui, esistono molti altri “esseri”: il cosmo, la società, il prossimo, Dio.

Questa consapevolezza gli fa scoprire se stesso come essere fragile e dipendente, immerso in grandi forze sociali, con un destino di vita limitato, ma con l’inappellabile compito di costruire la sua vita mettendo in gioco la sua libertà.

Ma la coscienza gli fa scoprire un fatto radicale: che non può esistere senza il mondo, senza l’altro, che la sua realizzazione non si può dare in sé e per sé solo, nella solitudine, ma con l’altro e per l’altro nella relazione.

Il con-vivere, il relazionarsi, è l’esigenza più ovvia e profonda dell’essere umano. Senza di essa l’essere umano è inconcepibile, non sarebbe che un cattivo progetto frustrato.

Il problema che si pone è come la persona, superando il proprio isolamento e solitudine, stabilisce una concreta relazione con il mondo che lo circonda e, in special modo, con il mondo delle persone.

b) Una realtà conviviale di amore

La necessità di relazionarsi con gli altri può essere soddisfatta in diverse forme. Di fronte ad altre forme di relazioni, che solo superficialmente aiutano a superare l’isolamento e instaurare un’unione con gli altri, occorre sottolineare quella originata e ottenuta per amore.

L’amore esige di:

– relazionarsi salvaguardando la propria individualità;

– agire cercando il bene dell’altro, cioè disinteressatamente, cosa non possibile senza che l’agire sia tessuto di conoscenza, attenzione, rispetto e responsabilità per l’altro;

– centrare la propria vita sull’atteggiamento di base del dare, a partire da quello che ognuno è e ha, per arricchire arricchendosi;

– superare l’atteggiamento egoista che disconosce e sottostima i valori più profondi della persona, della propria dignità, e che porta ad interessarsi di valori secondari, lasciandosi facilmente manipolare e cadere nella miseria dell’invidia e del volersi appropriare di ciò che è degli altri.

L’amore d’altra parte è qualcosa che bisogna apprendere costantemente, una capacità che esige una coltivazione permanente. Perché l’amore non si può con fondere con un sentimento momentaneo, con un’attrazione, con la condivisione di ricchezze e potere. L’amore, da quell’arte che è, richiede conoscenza, destrezza, tempo, riflessione e pazienza.

E richiede, come no, un senso della realtà, in virtù della quale uno considera importante quello che lo è, e non solo quello che lo riguarda, e si rende conto della realtà senza illusioni né fanatismi, con un’apertura generosa, umile e libera.

L’amore comincia con l’infonderci un sentimento di sicurezza, che si nutre della fede e della fiducia nel nostro io, nella nostra dignità e potenzialità e, conseguentemente, nella dignità e potenzialità degli altri. L’amore confida nella persona in quanto persona e non in altre espressioni – frequentemente maligne – del potere e dell’autorità irrazionale. L’amore crede che la nostra natura sia fatta e posseduta dalla legge fondamentale della ragione e della verità, dell’uguaglianza e della giustizia, della solidarietà e dell’impegno.

E per questo l’amore è forte e si trasforma in coraggio; coraggio contro i rovesci e la routine, il materialismo e la delusione, il legalismo e la burocrazia.

c) Una convivenza contro la legge dispotica dell’avere

Se il convivere e il convivere nell’amore è l’esigenza più profonda dell’essere umano, la civiltà attuale è organizzata in modo da contraddire e deformare questa esigenza fino all’esasperazione.

Nel suo libro Avere o essere?, Eric Fromm dimostra come la grande promessa l’ha suscitata la civiltà industriale, con la quale abbiamo creduto che la nostra felicità fosse definitivamente assicurata da una produzione e da un consumo illimitati, da una tecnica e una scienza onnipotenti, da una libertà e un dominio nuovi.

Ma la grande promessa è fallita perché abbiamo posto la nostra meta nella soddisfazione di ogni desiderio e necessità (edonismo radicale) e creato un sistema economico- socio-culturale basato sull’egoismo e l’avarizia.

Abbiamo creduto che la soddisfazione di tutti i bisogni, inclusi quelli dannosi per lo sviluppo umano, fosse indispensabile per la nostra felicità. «Abbiamo realizzato», scrive Fromm, «l’esperimento sociale più grande per rispondere alla domanda: il piacere (come esperienza passiva opposta all’amore, al benessere e all’allegria attivi) può essere una risposta soddisfacente al problema dell’esistenza umana? Per la prima volta, nella storia, la soddisfazione dell’impulso del piacere non è privilegio solo di una minoranza, ma è fattibile per più della metà della popolazione. L’esperimento ha già risposto alla domanda in modo negativo».

D’altra parte, l’egosimo è diventato un principio orientatore della condotta economica e personale. L’aspetto economico, diversamente che in altre epoche, si è separato dall’aspetto etico, ottenendo di funzionare autonomamente, indipendentemente da necessità e volontà umane: «Si è fatto verità: è buono ciò che è buono per il sistema» e «siccome il sistema richiede di affermare che gli individui sono egoisti e avari per natura, allora è buono e necessario affermare tal cosa».

E così il principio dell’Avere si è impossessato della società e degli individui, generando il modo fondamentale dell’avere: “Hai molto, vali molto; hai poco, vali poco; non hai nulla, vali nulla”.

Cruciale pertanto è recuperare la distinzione tra l’avere e l’essere, e decidere secondo quale modo vogliamo orientare, educare e proiettare la nostra esistenza.

È la questione chiave perché la convivenza umana e la convivenza maschio-femmina non finiscano in sterilità e distruzione. Nel modo di essere abbiamo l’originalità della nostra esistenza: può renderla verace e positiva, può farla sfuggire all’inganno e al fallimento. E il modo di essere si definisce come modo di essere nell’amore e per l’amore.

La pace. Decalogo

«Vi lascio la pace, vi dò la mia pace»

– E qual è la tua pace, Signore?

1. Ha la mia pace chi accetta se stesso e tutti gli altri in tutto quello che sono e con tutto quello che Dio ha loro donato.

2. Ha la mia pace chi ammette quello che in tutti c’è di comune, e di singolare e differente c’è in ognuno.

3. Ha la mia pace chi accetta che comune è la razionalità e la sensibilità, la libertà e la responsabilità, l’amore e la solidarietà, chi accetta la regola universale per la quale tratta tutti come egli desidera che tutti lo trattino.

4. Ha la mia pace chi professa che ogni creatura umana è insieme soggetto individuale, comunitario e storico-culturale.

5. Ha la mia pace chi, essendo unico e differente in sè, agisce come fratello di tutti.

6. Ha la mia pace chi costruisce la convivenza sulla pietra angolare dell’uguaglianza e della giustizia, che rende impossibile il binomio padroni-schiavi.

7. Ha la mia pace chi, in mezzo alla storia, si sente chiamato a costruire il progetto di universale e plurale fraternità, e a demolire l’antinaturale egoismo e avarizia, che divide, emargina e devia dalla loro finalità i beni creati e prodotti.

8. Ha la mia pace chi preserva l’identità umana, che ci fa tutti uguali, liberi e felici, di fronte al rullo livellatore del neoliberismo materialista, reificatore e consumista.

9. Ha la mia pace chi sostiene che nessuno è né può essere umano se aspira a realizzarsi a costo dell’altro, sia persona o popolo. La realizzazione è congiuntiva e non disgiuntiva, a partire dal “noi” solidale e non dall’io escludente.

10. Ha la mia pace chi crede che il progetto del Dio Amore è seminato in tutti i cuori e in tutti i popoli, senza che nessun imperio, di ieri, di oggi o di domani, possa essere legittimato.  

(Eletta Cucuzza, Adista Documenti n° 11 del 24/03/2018)

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