La “ballata” di Padre Turoldo
“Ti hanno recisa, Celina, mentre sognavi,
perché il sogno non avesse a finire.
E ora continua a sognare, è il sogno di El Salvador
il sogno dei cinque secoli di tutti gli uccisi.
Il sogno che nessuno squadrone può uccidere,
il sogno di ogni povero, ricco di sogno”.
E Rutilio Grande diceva: “Celina, sei il seme più piccolo
fra tutte le sementi”. E i due campesini uccisi con Rutilio
dicevano: “Sei il frumento per le nostre eucarestie”;
e tutti avevano la faccia di Cristo.
Allora il vescovo Arnulfo con appena un cenno
ti presentava al trono del Grande Silenzioso.
E tu, novello angelo di Pasqua, iniziasti a dire con voce squillante: “Non cercate tra i morti coloro che vivono…”.
“Avanti Ignacio Ellacuria, cinquantanove anni,
basco d’origine, salvadoregno di cuore, gesuita,
la mente pensante del Salvador: ora per sempre libero!”
È dedicata a Celina Ramos, figlia della cuoca e del giardiniere della Uca (l’Università centroamericana di San Salvador), uccisa con la madre Julia Elba e sei gesuiti il 16 novembre del 1989, la magnifica ballata di padre David Maria Turoldo composta nel luglio dell’anno successivo. Una ballata che fa memoria di un avvenimento che chiede di non essere dimenticato.
Il massacro
Sei sacerdoti gesuiti, tra cui il rettore dell’ Università, Ignacio Ellacuria, quella notte furono barbaramente trucidati dagli squadroni della morte. Fra le tre e le quattro di mattina, durante il coprifuoco e mentre i bengala illuminavano a giorno la città per favorire i caccia di un’aviazione che stava distruggendo la capitale, trenta sconosciuti in divisa militare entrarono nel recinto dell’ ateneo assassinando padre Ellacuria, altri cinque gesuiti, la cuoca e Celina, la figlia quindicenne.
Nella tradizione dei più macabri rituali usati dagli squadroni della morte i sacerdoti furono seviziati e torturati prima di essere finiti con numerosi colpi di pistola. I corpi di padre Ellacuria, di Ignacio Baron e di Segundo Montez, vennero poi trascinati nel cortile dell’ università dove furono ritrovati con il cranio e il cervello spappolati e i testicoli tagliati. I gesuiti e le due donne, che erano rimaste all’ interno dell’ università convinte di potersi salvare in quel luogo di studi e di fede dai combattimenti in corso nella capitale, furono sorpresi nel sonno quando approfittando del coprifuoco il commando omicida penetrò nelle loro stanze da letto. Commando organizzato da altissimi ufficiali delle forze armate del Salvador, compresi il ministro della Difesa René Emilio Ponce e il vice-ministro Juan Orlando Zepeda. Che diedero agli esecutori materiali un ordine preciso: “Non ci devono essere testimoni”.
I gesuiti, in Salvador, sono sempre stati impegnati nell’osservazione partecipante di una realtà politica segnata dalla violenza repressiva di un governo ostile a qualsiasi movimento che andasse in direzione di speranze riformiste. L’ottica della “liberazione”, infatti, fu per loro fatale in un clima già difficile in seguito al martirio di padre Rutilio Grande (12 marzo 1977), di mons. Oscar Romero (24 marzo 1980), l’assassinio di quattro suore americane (4 dicembre 1980) e allo scoppio della guerra civile (1981-1992) che portò alla morte violenta più di settantacinquemila persone.
Non dimenticare i martiri
Ma, come diceva Ignacio Ellacuría, finissimo teologo della liberazione, bisogna “hacerce cargo, cargar y encargarse de la realidad”, cioè farsi carico della realtà, ossia conoscerla realmente e viverla, assumere il compito di trasformarla mettendo l’intelligenza al servizio della prassi e accettandone la responsabilità etica. Lui e i suoi confratelli lo fecero fino alla morte. Consapevoli che l’opzione preferenziale per i poveri, poteva comportare il martirio. Sta di fatto, come ha scritto Gianni Beretta nei giorni scorsi sul “Manifesto”: “In El Salvador si è consumata una persecuzione della Chiesa cattolica come ai tempi delle catacombe; per di più per mano di stessi cattolici che rivendicavano per “designazione divina” da posizioni di potere il proprio modo di esserlo; a scapito degli altri. Tanto che è dovuto arrivare un papa latinoamericano per “risarcire” una serie di torti”.
Quella lunga lista di martiri dovremmo, nelle nostre chiese, ricordarla più spesso. Uomini e donne convinti che non ci potesse essere fedeltà a Dio senza fedeltà all’uomo concreto. Costi quel che costi. Altro che paladini del buon senso o sacerdoti che a tutti vogliono piacere.
Daniele Rocchetti,