mercoledì, Dicembre 18, 2024

L’ordine simbolico di Gesù (Beppe Pavan)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

C’è un modo classico e collaudato per squalificare e dichiarare non credibile una persona: dire che è “matta”. Può essere anche un meccanismo di autodifesa: quando un uomo o una donna escono dagli schemi culturali tradizionali della loro comunità, invece di interrogarlo/a per capire è più facile giudicarlo/a “fuori di sé”, pazzo/a da legare, quindi da starci alla larga, facendo attenzione a non farsi contaminare dalle loro idee.

E’ quello che l’evangelista Marco ci racconta di Gesù e della sua famiglia, ai vv. 20 e 21 del capitolo 3: “Poi tornò a casa e di nuovo si radunò tanta folla che non potevano neppure mangiare. I suoi, avendolo saputo, partirono per impadronirsi di lui, perchè dicevano: è fuori di sé!”. Ma una madre può verosimilmente dire di suo figlio che è pazzo per salvarlo. Il capitolo inizia, infatti, con un confronto duro tra Gesù e i farisei attorno ad un uomo con “la mano secca”: “Che cosa è lecito in giorno di sabato: fare del bene o fare del male? salvare uno o lasciarlo perire? E quelli tacevano”. Gesù lo guarisce e i farisei, appena usciti dalla sinagoga, “tennero consiglio con gli erodiani contro Gesù sul modo di farlo perire” (vv. 1-6). Questi propositi omicidi nei confronti di un uomo scomodo per il potere non erano, con ogni probabilità, un segreto nell’entourage di Gesù… dunque un motivo fortissimo di preoccupazione e di ansia per “i suoi”. D’altra parte, l’infermità mentale, addirittura la semi-infermità, è ancora oggi un’attenuante decisiva nei processi e nei giudizi, anche in casi di delitti particolarmente efferati. Perciò è comprensibile che “sua madre e i suoi fratelli” (v. 31) lo cerchino per riportarselo a casa. Davvero: non c’è nulla di strano.

Ma Gesù è un adulto consapevole e responsabile: vuol bene a sua madre e ai suoi fratelli, però ha fatto una scelta di vita da cui non intende assolutamente recedere. Vuole andare fino in fondo, consapevole anche dei rischi che corre e ai quali non si espone inutilmente. Ha le idee molto chiare: la famiglia, con il passare degli anni, si allarga e, avendo scelto di stare nelle relazioni con la modalità della cura, non può limitarsi a vivere nella piccola cerchia della famiglia biologica. Tutte le persone che incontra diventano partner di relazioni d’amore, di attenzione, di cura. Non solo: il pensiero, quando vi si sofferma, vola ad abbracciare idealmente “chiunque” (v. 35); questa pratica, nelle sue parole, diventa un messaggio di universalità, che non conosce esclusioni.

Non è sempre stato così, Gesù. Anche lui ha incontrato una donna, un giorno, che l’ha fatto riflettere: una straniera, una non-ebrea, che parlando di figli e cagnolini gli ha fatto scoprire l’universalità delle relazioni di aiuto (Marco 7, 24-30 e Matteo 15, 21-28).

Così adesso non stupisce che Gesù affermi: “Chi è mia madre e i miei fratelli? E guardando in giro quelli che gli sedevano intorno dice: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chiunque, infatti, fa la volontà di Dio, quegli mi è fratello e sorella e madre”.

Gesù esce dall’ordine simbolico patriarcale…

Il padre non è neppure nominato. Probabilmente Giuseppe era già morto e, quindi, è comprensibile che non facesse più parte dei “suoi” che lo cercano. Ma neppure la famiglia allargata, universale, di Gesù comprende un padre: solo “fratello e sorella e madre”. Solo? O non è piuttosto, in Gesù (e Marco ce lo racconta) una precisa indicazione di vita? una scelta consapevole, che accompagna coerentemente quella di stare nelle relazioni con amore e cura?

Elisabeth Schüssler-Fiorenza, nel libro “In memoria di lei” (ed Claudiana), scrive in proposito alcune pagine di chiarezza esemplare (pagg. 174-178): “Dato che la nuova ‘famiglia’ di Gesù non ha spazio per i ‘padri’, essa implicitamente respinge il loro potere e la loro posizione e sostiene quindi che nella comunità messianica tutte le strutture patriarcali sono abolite. Invece di riprodurre il rapporto patriarcale della ‘famiglia’ nell’antichità, il movimento di Gesù esige una rottura radicale di questo sistema”. Approfondisce poi il discorso commentando il detto di Gesù riportato dal Vangelo di Matteo al cap. 23, versetto 9: “Non chiamate nessuno padre fra voi sulla terra, perché avete un solo padre celeste”. Scrive Schüssler-Fiorenza: “Il nuovo vincolo nel discepolato di uguali non ammette ‘padri’ e in questo modo respinge il potere e la stima che la struttura patriarcale dava loro. (…) Il detto di Gesù usa il nome di ‘padre’ per Dio non come una legittimazione di strutture patriarcali di potere nella società o nella chiesa, ma come un rovesciamento critico di tutte le strutture di dominio. Il Dio ‘padre’ di Gesù rende possibile la ‘sorellanza degli uomini’ (per usare l’espressione di Mary Daly), negando a ogni padre e a ogni patriarcato il diritto di esistere. Nella comunità cristiana né i ‘fratelli’ né le ‘sorelle’ possono rivendicare ‘l’autorità del padre’, perché ciò vorrebbe dire riendicare l’autorità e il potere che spettano solo a Dio”.

Gesù, dunque, esce dall’ordine simbolico patriarcale, prende simbolicamente (nel suo pensiero e nella sua predicazione) le distanze dalla cultura della centralità dell’uomo, del potere, dell’autoritarismo, della misoginia, dell’esclusione nei confronti di stranieri, pagani, donne, lebbrosi, indemoniati, bambini, ecc… dalla cultura del pensiero unico e delle regole esteriori imposte a scapito della compassione e della solidarietà…

L’altro mondo possibile, per Gesù, è quello in cui l’unica legge è l’amore, declinato in tutte le forme possibili. E’ la cultura dei legami amorevoli, empatici, conviviali, con “chiunque”. E’ un altro ordine simbolico, dove regnano tenerezza e disponibilità, riconoscimento e riconoscenza, cura e attenzione, ascolto e accoglienza e rispetto anche per chi rifiuta… E’ il regno dell’universalità, dove non ha più senso l’appartenenza ad un clan, a una nazione o a una religione: “chiunque”, cioè ogni uomo e ogni donna che vengono al mondo, dovunque nell’universo, “mi è fratello e sorella e madre”. Io riconosco qui quello che il pensiero autorevole delle donne del femminismo, in particolare di Luisa Muraro, ha chiamato “ordine simbolico della madre”.

… Ed entra nell’ordine simbolico della madre

Non ci conosciamo, ma possiamo sviluppare la consapevolezza di essere strettamente imparentati, pur a migliaia di chilometri di distanza, con donne e uomini che vivono all’interno di questo ordine simbolico, quello della “volontà di Dio”. Che Gesù descrive spesso e volentieri con la formula del “primo e grande comandamento”, quello dell’amore, che sintetizza bene la sua vita e il suo insegnamento: amare Dio e amare il prossimo. E’ il testamento spirituale che Gesù, nel vangelo di Giovanni, affida a discepoli e discepole: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni le altre come io vi ho amato”.

Come dice bene Schüssler-Fiorenza, nell’ordine simbolico della madre resta potente la presenza di un padre: quello che molti e molte continuano a chiamare Dio. Dio è padre, nel linguaggio evangelico e, con ogni evidenza, nel linguaggio e nell’immaginario di Gesù; ma un “padre non patriarcale”, dal momento che la sua legge, la sua volontà, è l’amore, che Gesù cerca di praticare e predicare all’insegna dell’universalismo mai escludente. Questo modo di intendere e praticare la paternità si inscrive a pieno titolo, secondo me, nell’ordine simbolico della madre. Come ha felicemente sintetizzato Luisa Muraro, presentando il suo libro “Il Dio delle donne”, suggerendoci di non dire più “Dio è amore”, ma “l’amore è Dio”.

Pensando e dicendo così, nel mio immaginario, nel mio sistema di pensiero e di lettura del mondo (nel mio simbolico, in una parola), prende forma il “cerchio della vita”: dovunque c’è amore, lì si pratica la volontà di Dio, lì c’è Dio… non solo, “quello” è Dio! Non c’è più nessuno al centro, a dominare e farsi riverire e servire, ma tutti e tutte ci diamo la mano e ci guardiamo negli occhi, convivendo con ogni nostra personale differenza. E’ possibile essere uomini e padri in modi non patriarcali, sentendoci “soltanto” fratelli e sorelle in un mondo che vive grazie all’amore, modello e sostanza delle relazioni di tipo materno.

Per questo mi è molto utile pensare e nominare, a volte, la Grande Madre, Sorgente della Vita e dell’Amore. E’ un buon esercizio: si irrobustisce il simbolico alternativo a quello patriarcale.

Ascolto e autocoscienza

So di non essere ancora capace di sufficiente chiarezza nell’esposizione del mio pensiero, ma confido nella disponibilità di chi mi legge e mi ascolta a conversare con me, aiutandoci nella ricerca di livelli migliori di comprensione e di scambio.

C’è un corollario, a quanto detto prima, che mi preme ancora evidenziare. La reciprocità nelle relazioni d’amore richiede una grande capacità di praticare l’ascolto e l’autocoscienza. Altrimenti si continua a predicare se stessi e il proprio pensiero, pensato come “unico”: è la radice di ogni fondamentalismo, della cultura del dominio e dell’autoritarismo. Non si esce, cioè, dall’ordine simbolico (e materiale) patriarcale. Così può accadere che chi si proclama “vicario di Cristo in terra” e “successore degli apostoli” pratichi e predichi l’esclusione: verso donne e gay, lesbiche e transessuali, divorziati/e e risposati/e, teologi della liberazione e donne che aspirano al sacerdozio, appartenenti ad altre religioni e preti sposati, comunità di base e via elencando… Mentre Gesù ci ha lasciato un messaggio inequivocabile: vivere in relazione di parentela spirituale stretta con lui, come fratelli e sorelle e madri, comporta l’impegno a cercare di vivere ogni relazione con spirito universalistico, includente senza eccezioni.

Che non sia facile sono d’accordo. Ma che questo sia il messaggio centrale della vita e dell’insegnamento di Gesù sono altrettanto convinto. E assume finalmente senso un piccolo brano che finora mi risultava ostico (non solo a me, in verità); si trova al capitolo 4, sempre del vangelo di Marco, ai versetti 24 e 25: “Diceva anche ad essi: state attenti a ciò che udite. Con la misura con la quale misurerete vi sarà misurato; e a voi che ascoltate sarà dato di più. Poiché a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.

Gesù sta parlando ai “discepoli”, ai quali “in privato spiegava tutto” (4,34). Discepoli e discepole sono sinonimi di allievi e allieve, cioè persone desiderose di imparare dal maestro: per questo stanno con lui, lo seguono, lo ascoltano, lo interrogano, discutono e, a volte, polemizzano. A loro Gesù dice: “State attenti a 6 ciò che udite”. Non basta sentire con le orecchie: le parole udite possono entrare da una parte e uscire dall’altra, lasciando a mani vuote chi non ha capacità di attenzione a ciò che ascolta. Questa mi sembra la pratica dell’autocoscienza: fare attenzione a ciò che ascolto, a ciò che mi viene detto, in modo che mi penetri dentro, nella mente e nel cuore, e vi resti, diventando così alimento per i miei pensieri e per il cambiamento delle mie pratiche di vita.

L’esperienza in comunità, nel gruppo uomini e in ogni altro gruppo, ormai, me lo conferma: questa attenzione all’ascolto è un arricchimento quotidiano. “A voi che ascoltate sarà dato di più”: ascoltare lui e ascoltarci fra di noi ci aiuta ad imparare anche noi a parlare con amore, a cercar di fare dell’amore la modalità delle nostre pratiche di vita. Cioè, cercar di fare, nella vita, “la volontà di Dio”, uscendo consapevolmente dall’ordine simbolico patriarcale, dove ci sono solo figli e figlie, per entrare in quello della madre, dove siamo fratelli e sorelle.

Beppe Pavan, Uomini in cammino, Foglio N.1/2007

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