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Giornata Mondiale del Rifugiato 2021: i numeri della migrazione (Luca Attanasio)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, si procedette a una serie di tristi conte che rivelarono con cifre fredde il dramma epocale che l’umanità aveva appena vissuto. Numeri che descrivevano la vastità dell’orrore, statistiche che sgomentarono il mondo. Tra queste, dopo i morti, i feriti, gli internati nei campi, emerse il dato riferito ai profughi, i dislocati, diremmo oggi, i migranti forzati. Cinquanta milioni. Un popolo di disperati che a ridosso, durante e subito dopo la guerra, vagarono per l’Europa e il mondo in cerca di salvezza o di rifugi appena più sicuri delle loro case, le città, i villaggi.

Gli storici, nei decenni a seguire, commentarono che una cifra simile non si sarebbe mai più raggiunta: si trattava del buco nero dell’umanità, dell’anno zero della storia, nessun altro evento avrebbe mai produrre un numero tale di sfollati e profughi.

Quanto avviene dal 2013 a oggi, invece, smentisce clamorosamente le profezie degli studiosi, restituendoci un racconto che per decine e decine di milioni di individui significa fuga permanente. Da 8 anni, infatti, il numero delle persone che lasciano le proprie case per guerre, persecuzioni, dittature, disastri ambientali, supera regolarmente la cifra raggiunta per la Seconda Guerra Mondiale ed è in costante aumento. Anzi sembra inarrestabile. 

Secondo le statistiche che il 20 giugno di ogni anno l’UNHCR aggiorna in occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il pianeta, tra conflitti, regimi, calamità naturali (che naturali non sono quasi mai), assieme a neocolonialismi o standard finanziari che moltiplicano povertà anche in Paesi infinitamente ricchi, nel 2020 ha generato l’incredibile cifra di 82,4 milioni di displaced. Come se Stati quali la Germania o la Turchia, fossero costretti a mettersi in marcia in blocco per salvarsi la vita. Lo scorso anno, quando scrivevamo di record inarrivabile in riferimento agli esodi forzati del 2019, erano 79,5 milioni; nel 2018, 70,8. Sfidano ogni sorta di avversità pur di assicurarsi una parvenza di safe haven per sé e le proprie famiglie, molto più spaventati dai motivi alla base delle migrazioni che dalla stessa pandemia. Sono in gran parte donne (oltre il 50%) e, ciò che spaventa forse maggiormente, bambini: il 42%. Il 5% dei quali è compreso tra 0 e 4 anni. Alcuni tra i minorenni, viaggiano da soli, andando a ingrossare le fila di un fenomeno che qui da noi viene chiamato MSNA (minori stranieri non accompagnati) e che è, anch’esso, in continuo aumento. 

I bambini del mondo rappresentano il 30% della popolazione, ma nell’universo dei migranti forzati, quasi la metà. Negli ultimi due anni, un milione sono nati in situazioni di transito o di stanzialità precaria: i famigerati campi profughi dislocati nel mondo – in stragrande maggioranza in Africa, Medio ed Estremo Oriente, Asia Minore con cifre significative anche in America del Sud – dove decine di milioni sostano in attesa di non si sa cosa. In Libano, tanto per fare un esempio, dove si calcola che oltre agli storici insediamenti dei palestinesi cominciati negli anni ’50 e proseguiti fino ad oggi, risiedono un milione e mezzo di siriani arrivati fin dallo scoppio della guerra convinti di tornare in breve tempo, e ancora lì intrappolati. 

A differenza del sentiment comune che li vorrebbe tutti in Europa o addirittura in Italia, i migranti il vecchio continente sostanzialmente neanche lo vedono. L’86% trova rifugio in Paesi in via di sviluppo, il 76 in Paesi limitrofi. Le leggi che regolano i movimenti migratori contemporanei, infatti, non rispondono a logiche semplicistiche del tipo “Scelgo io dove andare”, o “Punto diritto ai Paesi ricchi e democratici”, per un’infinità di motivi. Intanto chi scappa da eventi drammatici, lo fa spesso di corsa e lascia la propria casa nella speranza di tornarci al più presto, quindi non si allontana. Poi, cerca contesti culturali, linguistici, religiosi simili, in cui sia più semplice adattarsi. Inoltre, se si sposta, sceglie luoghi vicini perché i costi per permettersi un viaggio evidentemente si riducono specie se, come spesso accade, si viaggia con la famiglia. La top list dei Paesi in cui sono ospitati i migranti forzati (accolti sarebbe davvero troppo) vedi ai primissimi posti Turchia, Colombia, Pakistan e Uganda.

Nella statistica dei Paesi maggiormente “esportatori” di profughi, continua a esserci al primo posto la Siria, seguita da Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e, come triste new entry, Myanmar che dal colpo di stato del febbraio scorso non conosce pace.

Al centro del dibattito attorno a questo fenomeno inquietante, al di là dei motivi alla base degli esodi – primo e più importante elemento da aggredire per rallentare il vorticoso ritmo – ci dovrebbero essere i viaggi che la quasi totalità di queste persone deve affrontare per mettersi in salvo. O meglio ancora le vie di accesso legale per evitare che tali viaggi vengano svolti: in mano ai trafficanti, con rischi di morte altissimi e ferite fisiche e morali, nel remoto caso ci si salvi e si arrivi a destinazione vivi, non rimarginabili. In qualunque latitudine si decida di fuggire per mettersi al riparo, il transito avviene molto spesso per canali illegali. Succede per chi dal Sud o dal Centro America tenti di superare il confine con gli USA, per chi si avventura nel Pacifico o nell’Oceano Indiano per raggiungere mete sicure (il caso dei Rohingya è forse il più clamoroso ma non l’unico), per chi transita per Ceuta e Melilla tra Marocco e Spagna, chi dall’Africa occidentale provi la pericolosissima quanto lunga tratta  dell’Oceano Atlantico per raggiungere le Antille, fino ad arrivare alla ben nota tratta che porta in Libia. Viaggi dai costi spaventosi che come esito intermedio hanno stenti, sevizie, torture e che spesso si concludono con la morte. 

Se ripensiamo alle migrazioni epocali di epoche pregresse, non così lontane da noi, come quelle che hanno visto protagonisti milioni di italiani verso l’America tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, (tra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, ndr), notiamo uno spaventoso arretramento sul piano dei diritti e della salvaguardia di vite umane. È vero, il razzismo, in particolare verso i nostri connazionali, le difficoltà di integrazione, la diffidenza verso i nuovi arrivati erano palesi. Ma innanzitutto chi partiva dall’Europa o da altri luoghi su grandi navi – non su barconi o natanti improbabili – era sicuro di arrivare vivo nonostante l’enorme distanza. E poi, di tutti quelli che sono passati al duro vaglio di Ellis Island all’arrivo, solo il 2% veniva respinto. 

di Luca Attanasio. Giornalista e scrittore, Confronti, 18 Giugno 2021

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