domenica, Dicembre 22, 2024

Il termine apartheid non cattura la pienezza della sofferenza palestinese. Ma aiuta. (Muhammad Shehada)

Don Paolo Zambaldi
Don Paolo Zambaldi
Cappellano nelle parrocchie di Visitazione, Regina Pacis, Tre Santi e Sacra Famiglia (Bolzano).

Apartheid non è una brutta parola. È un campanello d’allarme. Una richiesta di aiuto. Chiediamo un’azione immediata, perché qualcosa è fondamentalmente sbagliato, insostenibile e dovrebbe essere cambiato se vogliamo evitare conseguenze irreversibili.

In un recente incontro con un rappresentante delle Nazioni Unite, mi è stato chiesto di suggerire concetti che cogliessero la sofferenza che la mia famiglia e i miei cari a Gaza devono sopportare. Mi sono bloccato per un momento, non solo per la sorpresa di uno studioso di diritto che cercava senza successo un concetto che catturasse precisamente il dolore di Gaza, ma anche per la mia incapacità di tradurre la mia esperienza vissuta in parole che esprimessero appieno la sua complessità e angoscia.

Ci sono numerose parole si possono evocare estemporaneamente o dopo un’attenta riflessione per invocare associazioni nella mente del lettore che possono riflettere l’entità della brutalità, dell’umiliazione e del confinamento a cui noi palestinesi siamo stati sottoposti. Ma niente può cogliere e descrivere completamente l’agonia e la sconfitta di guardare impotente negli occhi del mio defunto padre, sofferente nei suoi ultimi istanti di vita, incapace di parlare dal dolore, nell’impossibilità di ricevere medicine o cure, perché Israele aveva appena rinchiuso due milioni di noi, abitanti di Gaza, in una prigione a cielo aperto.

O essere bloccato in un garage sotterraneo durante l’Operazione Piombo Fuso, la guerra di tre settimane tra Israele e militanti di Hamas che ha causato la morte di circa 1.500 abitanti di Gaza nel 2009, mentre il fosforo pioveva sull’area come un fuoco infernale, mentre l’esercito israeliano avanzavano per invadere il nostro quartiere. Sette di noi si sono nascosti in una piccola macchina per sei ore, ogni secondo sembrava una vita. Avevamo paura di fare rumore, paura di dormire, paura di restare svegli. Non osammo muoverci, solo sussurri e tremori finché non arrivò il silenzio con l’alba. Se fossimo morti, la nostra esistenza sarebbe stata ridotta a meri “danni collaterali”, semplici statistiche che non evocano alcuna empatia o compassione?

E, certamente, nessuna parola può cogliere l’agonia di amici disperati e persone care, che ogni giorno si sentono vivi solo per non essere morti. Alcuni hanno raggiunto i 35 anni, si sono laureati, hanno fatto tutto da manuale e tuttavia si ritrovano disoccupati, soli, incapaci di mettere su famiglia, con la paura di morire prima ancora di iniziare vivere.

Il loro unico crimine è essere nati dalla parte sbagliata della recinzione.

Quali parole potrebbero esprimere l’umiliazione di implorare affannosamente le autorità israeliane per un’improbabile possibilità di ottenere uno speciale “permesso di sicurezza” per lasciare Gaza per proseguire l’istruzione o le cure mediche, mentre gli israeliani viaggiano liberamente senza dover presentare una richiesta ogni volta che vogliono esercitare un diritto fondamentale.

Ora arriva Human Rights Watch (HRW), che segue la rispettata organizzazione israeliana B’Tselem, per definire la nostra insopportabile realtà “apartheid”. Alcuni amici di Gaza lamentavano che anche quel termine carico di evocazione del regime razzista più repressivo della storia moderna non coglie pienamente la nostra esperienza. Ma è quanto di più simile.

Un termine giuridico universale che impersonalmente comprende tre parametri: l’intento di dominare, l’oppressione sistematica, e uno o più atti disumani, come meticolosamente descritto nel rapporto di 223 pagine di HRW.

Una realtà in cui le nostre libertà civili e i nostri diritti sono sospesi, dove il nostro quotidiano disagio e la nostra umiliazione da un lato del confine, fisico o mentale, non conta, a patto che gli infiniti “problemi di sicurezza” siano attenuati dall’altro. Una realtà in cui alla nascita, il destino di una persona è segnato sia per provare l’umiliazione di stare per ore in attesa davanti a un posto di blocco sovraffollato tra le città palestinesi in Cisgiordania, che per passare con accettazione e senza restrizioni.

Una realtà in cui la nostra espropriazione e il trasferimento forzato sono sistematici ed evidenti, ma costantemente condonati, giustificati e approvati dai governi successivi, perché aprono la strada alla prosperità delle comunità di coloni.

Un luogo in cui la propria categoria etnica determina se le proprie rimostranze, frustrazioni e ambizioni devono essere ascoltate o ignorate. Un luogo dove il Ministro della Difesa israeliano, Benny Gantz, può vantarsi apertamente e ripetutamente che: “non consentiremo uno sviluppo reale e a lungo termine nella Striscia di Gaza”, e prima di lui Avigdor Leiberman può arrivare a dire: “Gli permettiamo di sopravvivere, ma niente di più”, il tutto nel silenzio dei media israeliani.

Vedere questa intollerabile realtà riconosciuta da una delle principali organizzazioni indipendenti per i diritti umani del mondo significa molto. Non perché renderà le nostre vite migliori, o quelle degli israeliani peggiori, ma perché riconoscere e descrivere accuratamente un problema è il primo passo per risolverlo, in modo giusto e duraturo.

Offre conforto e calore al nostro grido di vita e alle grida di agonia che devono essere sempre più ascoltate e riconosciute nella comunità dei diritti umani. Offre uno scorcio di giustizia, per lo meno davanti all’opinione pubblica, e di solidarietà in un momento in cui la destra sionista israeliana sta cercando di convincerci che siamo tutti soli, sconfitti e che il mondo ci ha dimenticati.

Il nostro fine non è la vendetta, ma la giustizia. È il riconoscimento e la riconciliazione, non l’odio e la demonizzazione. Apartheid non è una brutta parola. È un campanello d’allarme. Una richiesta di aiuto. Chiediamo un’azione immediata, perché qualcosa è fondamentalmente sbagliato, insostenibile e dovrebbe essere cambiato se vogliamo evitare conseguenze irreversibili.

La posizione rivoluzionaria di HRW oggi, parte di un potente consenso che si forma tra i principali gruppi ed esperti di diritti umani, è essenziale, poiché la parola “occupazione” è diventata troppo normalizzata, troppo banale e troppo spiccia per descrivere l’invivibile situazione che non provoca più condanne ufficiali o mobilitazioni nelle capitali occidentali.

Il rapporto HRW offre quindi uno specchio a Israele e al mondo; suonando un campanello d’allarme che l’ingiustizia commessa è una cosa terribile, non solo per i palestinesi, ma anche per Israele.

Perché l’apartheid corrompe l’anima dell’oppressore tanto quanto rovina l’esistenza degli oppressi.

Muhammad Shehada è un editorialista che collabora con Forward. Seguitelo su Twitter @ muhammadshehad2 o inviate un’e-mail a muhammadushehada@gmail.com.

Traduzione: Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org

Fonte: english version

Muhammad Shehada – 28 aprile 2021

Immagine di copertina: palestinesi al chckpoint dell’insedimaneto di Maale Adumin

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