Dibattito – A causa dei numerosi casi di abuso, la formazione dei sacerdoti è sempre più messa in discussione. Il teologo pastorale di Innsbruck Christian Bauer chiede un cambio di rotta chiaro e deciso. Nel suo discorso spiega come, invece di richiedere semplicemente più ingressi in seminario, si debbano prendere sul serio le sfide nel mondo di oggi!
La Conferenza Episcopale Tedesca si sta occupando del futuro della formazione sacerdotale, che è anche un tema chiave del Cammino Sinodale che si sta sviluppando in Germania. Alla luce della crisi generata dai tanti casi di abuso, questo mio contributo vuole essere un impulso per una riorganizzazione complessiva, partendo dalle fondamenta. La formazione sacerdotale deve essere compresa nel contesto dell’auto-evangelizzazione sinodale della Chiesa. Già dopo il Concilio Vaticano II c’erano stati nuovi approcci abbastanza importanti nella formazione sacerdotale, era avvenuto in molte diocesi… Purtroppo questi nuovi stimoli si sono in gran parte arenati, se non proprio “estinti”, con il grande ritorno al passato sotto i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. La diffusa ri-clericalizzazione di quello che era emerso nella stagione post-conciliare è una pesante ipoteca su tutte le vocazioni ecclesiali, compresa quella dei sacerdoti. Dopo una conferenza, un prete anziano una volta mi disse che era stato insultato due volte nella sua vita come ‘prete del Concilio’: una volta come giovane cappellano dal suo anziano parroco, e ora come parroco dal suo giovane cappellano. Nel pontificato di Papa Francesco, nonostante tutte le difficoltà, stanno ora emergendo nuove possibilità per una formazione sacerdotale post-clericale che sia anche “sinodale” nel senso della visione della Chiesa come comunità di pari in cammino.
Sinodalità invece di clericalismo!
La formazione sacerdotale fino ad oggi ha portato spesso alla creazione, nella società, di un habitus clericale – a volte non voluto, ma comunque efficace nei suoi effetti – che è stato a lungo una giustificazione ed una copertura per ogni forma di abuso, da quello spirituale fino alla violenza sessuale. Nonostante le migliori intenzioni dei formatori, le modalità del passato per la formazione dei preti favoriscono la formazione di un dannoso “esprit de corps clericale” (il classico “confratelli”). Il problema qui non sono tanto i singoli comportamenti di certi gruppi, solo maschili e clericali, ma piuttosto l’esistenza di questi gruppi chiusi ed autoreferenziali: “Il clericalismo rappresenta un sistema gerarchico e autoritario, che dal punto di vista del prete può portare a porsi in un atteggiamento di dominio assoluto sulle persone non ordinate. Questo si riflette nel modo di interagire, perché egli detiene una posizione superiore in quanto a funzione ed è legittimato dalla sua ordinazione sacramentale. L’abuso sessuale è una conseguenza estrema di questo dominio”. (Studio MHG). In breve: “Il clericalismo è potere pastorale a cui si aggiunge un’immagine corporativa/di casta della Chiesa” (Michael Schuessler). O ancora più breve: “Cura paternalistica e oppressiva” (Ute Leimgruber).
Quanto sia pericolosa, in questo contesto, una confusione e commistione tra potere ecclesiastico sacralizzato e un concetto di autorità che si fa derivare da Cristo stesso, è mostrato dalla seguente dichiarazione di una sopravvissuta all’abuso sessuale: “Ha detto che sono maledetta da Dio e che Dio mi odia. Ha abusato di me davanti al Santissimo Sacramento, mi ha contaminato e ha detto che Dio vuole questa cosa e che l’approva. Quello che io faccio a te, è Dio che lo fa”. Questo è il pericolo contro il quale oggi è necessario ed urgente un cambio di rotta deciso nella formazione sacerdotale che testimoni una vera conversione… Un cambiamento di “rotta”.
Un aiuto in questo cammino di cambiamento è appena arrivato da Roma. Papa Francesco raccomanda la sinodalità, l’ “andare avanti insieme” di tutti i battezzati, come un “antidoto” sicuro agli abusi di potere che diventano “sistema”. Per Francesco, in definitiva, tutta la Chiesa è una Societas Jesu (come la sua comunità religiosa) – una comunità di cammino sinodale di discepolato in cui tutti i partecipanti sono prima di tutto sociae e socii: Compagni del Signore (IHS: Jesum habemus socium).
L’ultimo documento di discussione nel gruppo di lavoro della DBK (Conferenza episcopale di Germania) propone una via “sinodale” con la sua idea di una formazione comune per i futuri sacerdoti, assistenti parrocchiali e pastorali. Perché la formazione pastorale di una “Chiesa tutta sinodale” (Papa Francesco) è anche un cammino sinodale, cioè un percorso condiviso da tutti gli interessati – dal greco syn-odos, cammino comune (“syn-“) (“-odos”): la formazione diventa allora per tutti una scuola comune di discepolato. Durante la loro formazione, i futuri ministri della Chiesa dovranno essere in grado di conoscere e saper mettere in pratica la formazione teologica ricevuta: “Solo seguendo Lui i cristiani sanno a chi si sono affidati” (Johann B. Metz). Bernhard Spielberg aggiunge: “I capi carovana […] non vengono formati in un collegio. Per il deserto ci si allena nel deserto. All’età di quindici anni, i giovani vengono scelti per andare con una carovana per quindici anni. Solo allora si assumono la responsabilità in prima persona. Lungo il cammino imparano a stare sulla strada”.
Cornice clericale e nuovo contesto sinodale
Se ho ben compreso in anni di esperienza: la “cornice clericale” nella formazione sacerdotale può essere descritta principalmente da tre termini: Disciplinare/normare, uniformare e isolare. Tutti e tre i fattori si condizionano e si sostengono a vicenda:
-Ciò che significa concretamente “disciplinare” è stato illustrato chiaramente qualche tempo fa sul sito Feinschwarz.net sotto il titolo “Con Foucault in Seminario”. Questa prospettiva, questa attenta analisi, permette di rendere visibili e chiari i giochi di potere che formano l’habitus dei candidati al sacerdozio. Con queste pratiche, in un contesto di rapporti gerarchici di potere, il seminario post-tridentino subdolamente tenta di istituire un clima “da caserma”. Tutto è “normato” in una assurda idea di uniformità… Veramente tutto: da ciò che si pensa, fino al colore dei pantaloni quando si presta servizio in cattedrale.
-Questa omologazione, per rendere tutto e tutti più uniformi, descrive bene il risultato che si ottiene da un ambiente chiuso come il seminario (“Hausgemeinschaft”). Basta sedersi e pranzare in seminario ascoltando ciò di cui si parla (“Chi diventerà vescovo e quando?”) o di cui si ride (per esempio le barzellette sul clero), per farsi un’idea dell’isolamento di questa “ecclesiosfera” autoreferenziale (E. Poulat). Un seminario che ogni tanto invita degli ospiti a pranzo è lontano dall’essere una casa aperta.
-Questo isolamento uniformante, svincola tutti dal mondo esterno, dimostrando che i seminari attualmente formano principalmente per una Chiesa ancora tutta giuridica e dogmatica, basata su quello che si potrebbe definire il “modello Lumen-gentium”. Ma, allo stesso tempo, non viene tenuto conto di una Chiesa sul “modello Gaudium-et-spes”, ovvero pronta per incontrare il mondo e le sue sfide. Un seminarista una volta ha raccontato di un assurdo viaggio della comunità del seminario per la benedizione delle campane per la chiesa/cappella del seminario stesso. Il giovane mi riferiva che: “Tanto alle Messe che li vengono celebrate non partecipa quasi nessuno!” mentre lui ha dovuto lottare per poter fare uno stage in ambito sociale. Campane sì, sociale no.
I tre problemi strutturali della formazione sacerdotale, menzionati sopra, non sono un destino inevitabile fissato da Dio – sono stati creati dall’uomo e quindi possono, e oggi devono!, essere cambiati. Ecco alcune idee alternative che possono aiutare in questo percorso:
-Attenzione all’individuo invece di “intruppamento”: anche nella formazione sono necessari cammini individuali per creare un’ “esperienza efficace per il singolo in un contesto di audace libertà”, che sia accompagnata in modo giusto, benigno ed amorevole (Rainer Bucher). Questo richiede modalità di formazione centrate sul partecipante e orientate a tener conto dell’intero processo: “Imparate a distinguervi, infine siate liberi – solo le menti limitate vogliono la monotonia”. (Friedrich Karl Barth, Peter Horst).
-Pluralizzazione invece di uniformazione: non c’è bisogno di una maggior concentrazione di futuri sacerdoti, candidati a servizi parrocchiali e pastorali, in nuovi seminari XXL! Ma piuttosto abbiamo bisogno di comunità residenziali decentralizzate che siano inserite in una vita studentesca “normale”: “Infatti, si impara la teologia non solo a lezione, ma anche al tavolo da pranzo o mentre si cucina, in un appartamento condiviso o al pub con perfetti sconosciuti”. (Simon Linder).
-Contestualizzazione invece di isolamento: Il requisito più rilevante (“Si impara a nuotare solo nell’acqua”) nella formazione sacerdotale, richiesto anche dai vescovi, non deve più essere orientato solo “ad intra” (per esempio prestando servizio in alcuni momenti, come durante i fine settimana, nelle parrocchie o in altre comunità), ma deve anche condurre i seminaristi ad aprirsi a percorsi “ad extra”: “Sono solo contento che la Chiesa – finalmente – vada nel mondo, lì ha molto da imparare”. (M.-Dominique Chenu).
Studi teologici mettendosi in gioco
Questo punto mi sembra sottovalutato negli sforzi di riforma fino ad oggi: la necessaria apertura della formazione sacerdotale al mondo esterno. Secondo Papa Francesco, la comunione di un cammino sinodale si realizza non solo ad intra, ma anche ad extra… allora è evidente che questo è anche di centrale importanza per la formazione sacerdotale. Perché chi va verso l’esterno si confronta inevitabilmente con la propria interiorità – e questo significa anche con domande sul sistema di potere ecclesiastico, sullo stile di vita sacerdotale, sulla mancanza di giustizia, di eguaglianza di genere o sulla morale sessuale cattolica. È quindi necessario oggi ripensare, non solo la Chiesa nel suo rapporto con il mondo, ma anche la formazione dei suoi sacerdoti in questo contesto rinnovato.
Per realizzare tutto questo, non solo la formazione pastorale, ma anche gli studi teologici devono cambiare. In questo contesto si ha bisogno, non più di una “teologia da scrivania” introversa e alienante (Papa Francesco), ma di aperture verso l’esterno, di un nuovo modo di dire “mondo” e di dialogare con esso. La teologia come “laboratorio culturale” (Papa Francesco) della contemporaneità deve essere studiata nelle università statali e in contesti laici: “Chi si aspetta che i suoi sacerdoti siano capaci di dialogare con e nella società, dovrebbe impedire per i suoi figli che si crei la possibilità di rimanere sempre tra di loro” (…in un “club” ristretto e chiuso). (Simon Linder).
Coloro che desiderano diventare preti devono quindi essere tirati fuori dalla loro “zona di comfort personale” e coinvolti in esperienze a contatto con la società. Esperienze che li spingano a riflettere sui loro limiti e permettano loro di crescere – nel senso di una “formazione all’inculturazione”, e in cui le nuove sfide pastorali porteranno alla sorgente della propria spiritualità. Perché solo le nuove esperienze, che stimolano permanentemente ciò che rischia di diventare abitudine, rendono possibili cambiamenti di atteggiamento e di prospettiva: “Un’esperienza è qualcosa da cui esco cambiato” (Michel Foucault).
I sacerdoti del mondo nello spirito del Concilio
Ci sono sicuramente luoghi affascinanti per una tale formazione sacerdotale. Uno dei primi, nati in quello che sarebbe poi diventato lo spirito del Concilio Vaticano II, fu il collegio domenicano francese di Le Saulchoir. Sotto l’egida del teologo conciliare Dominique Chenu, durante gli anni ’30, c’è stata un’apertura multidimensionale dell’insegnamento. Essa ha portato non solo ad un allargamento degli orizzonti filosofici attraverso l’inclusione di Karl Marx nel programma di studi, ad un approccio ecumenico verso le Chiese orientali, alla rivalutazione del dialogo interreligioso (nel contesto di quello che sarebbe diventato l’Istituto del Cairo per gli studi islamici), ma anche ad un rinnovamento didattico attraverso i primi progetti di esperienza/ esposizione pastorale: Nel 1933 Chenu permise al giovane domenicano Albert Bouche di fare il suo primo tirocinio nelle miniere di carbone di Charleroi, che fu seguito da ulteriori esperienze pratiche, teologicamente ragionate, negli ambienti del mercato di Parigi o nelle fabbriche di automobili della Renault.
Questi progetti pionieristici altamente didattici portarono non solo alla nascita del movimento dei preti operai (PO = Prêtres-ouvriers), ma alla lunga anche al decreto del Concilio Vaticano II sul sacerdozio (PO = Presbyterorum ordinis) – anche se Chenu fu inizialmente privato del suo ufficio nel 1942 e l’esperienza dei preti operai francesi fu proibita nel 1954. Questa esperienza segnò un nuovo inizio, perché capovolse di nuovo il sacerdozio cattolico romano: “Lo schema preconciliare fu […] capovolto. In primo luogo […] si mette la testimonianza del Vangelo, dal quale e nel quale poi si articola l’ordine sacramentale […] delle cose […]”. (Dominique Chenu).
Vagabondi del desiderio
(…) Si devono superare tutti gli ostacoli verso una formazione sacerdotale fondamentalmente riformata nello spirito del Concilio: Sacerdoti non più solo come amministratori centrati sul culto e sui sacramenti, ma come testimoni pastorali del Vangelo nel mondo – nelle parrocchie e in molti altri luoghi pastorali.
Oggi il modello spirituale del prete di domani non può più essere il Curato d’Ars, ma piuttosto “l’uomo di Dio aperto al tempo in cui vive” (Paul Zulehner), che accompagna gli altri uomini come un “vagabondo del desiderio” (Michel de Certeau) mosso da Gesù che lo guida nella ricerca di una vita buona/positiva e apre a lui il Vangelo come “risorsa” che promuove la vita (François Jullien). Questo servizio mistagogico e rivolto all’esterno, è uno dei cammini vocazionali più esigenti della Chiesa; merita quindi la piena solidarietà della teologia.
E, soprattutto, merita di meglio che una modalità di formazione del XVI secolo (= il seminario clericale post-tridentino) che propone un’immagine del prete del XIX secolo (= il Curato d’Ars, nel contesto dell’ambiente parrocchiale tradizionale). Senza dubbio, c’è già molta buona volontà nella formazione sacerdotale che punta oltre tutto questo – ma anche solo le buone intenzioni non sono più sufficienti oggi. C’è anche bisogno di nuove strutture sinodali e di uno spirito diverso, post-clericale. Più cuore e coraggio e anche più immaginazione istituzionale. I futuri sacerdoti meritano ambienti aperti piuttosto che ambienti chiusi. Perché non hanno tanto bisogno di essere “invitati a entrare” nel mondo del seminario, quanto di essere “invitati a uscire” nel seminario del mondo.
Christian Bauer, Innsbruck – 02.03.2021
(Liberamente tradotto da don Paolo Zambaldi)